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Tre favorevoli: Pd, FI e Lega ( ma c’è anche Ap); altri tre contrari: Cinquestelle, Mdp e Fdi. Sei forze politiche che si ritroveranno a metà ottobre nell’emiciclo di Montecitorio per la partita finale della legislatura, la riforma elettorale. Quella in cui massima è l’importanza e al tempo stesso è massima anche l’incertezza. Sei personaggi in cerca d’autore come nella commedia di Luigi Pirandello, e c’è da scommettere che il premio nobel siciliano non faticherebbe a rintracciare nello spettacolo che andrà in scena i temi a lui cari: il teatro nel teatro; realtà e finzione sovrapposte; la commedia del fare unica possibilità narrativa perchè dramma e tragedia si sono già consumate tramutandosi a volte addirittura in farsa, al punto che gli spettatori - in questo caso i cittadini - se ne sono andati abbandonando la sala: disertanto cioè i seggi elettorali.
Sei personaggi che come altrettanti Avatar dei corrispettivi teatrali irrompono sulla scena all’interno di una scansione che è fluida in quanto priva di un copione già scritto. Si guardano l’un l’altro a volte smarriti altre in cagnesco, interpretano ruoli di cui sono convinti fino ad un certo punto, pronti comunque a cambiare interlocutore non appena dovessero fiutare convenienze diverse.
Come accade nel capolavoro pirandelliano, già l’arrivo sul proscenio è straniante. Soprattutto se gli schieramenti attuali vanno interpretati come metafora, seppur parziale, di quelli che si presenteranno ai nastri di partenza delle politiche del 2018. La griglia dei favorevoli alla riforma ( usare il latinorum dei “nellum”: Mattarellum, Porcellum, Rosatellum è deprimente, meglio evitare) è infatti sbilenca nel senso che ci sta il 90 e passa per cento del centrodestra: FI più Lega, e il Pd solo soletto. Con l’appendice degli alfaniani è vero, che però in molte regioni governano appaiati agli ex alleati berlusconiani e salviniani. In Sicilia li hanno rifiutati, ma metà del gruppo parlamentare è sul piede di partenza e chissà cosa accadrà fino a marzo- aprile del prossimo anno. Una condizione che non dispiace a Berlusconi, che di Renzi non si fida ma è stato persuaso che con il nuovo meccanismo aumenterà la consistenza del gruppo parlamentare, senza per questo stringersi a doppia mandata con il riottoso capo del Car- roccio. Il quale Salvini sa perfettamente a cosa va incontro ma compulsa con grande soddisfazione i sondaggi riservati che inchiodano Fi a quel 12,5 per cento che era e che resta. Sicuramente l’attivismo dell’ex Cav rimpolperà il bottino; però così il baldanzoso annuncio di Renato Brunetta ( «Il candidato premier? Sarà chi prende più voti» ) minaccia di assumere un suono sinistro. Matteo 2 è convinto di fare il pieno al Nord e poter così mettere un’ipoteca seria sulla premiership. Il resto, si vedrà. Matteo 1, invece, appunto è solo. Quelli che hanno lasciato il Pd militano nella curva opposta ai fan della riforma e di alleanze non ne vogliono sentir parlare fintantoché Renzi continuerà ad occupare la stanza principale del Nazareno. Sono cordialmente ricambiati. L’ex premier si tiene volutamente alla lontana dal proscenio, guarda in disparte da dietro le quinte le mosse e la recitazione degli altri cinque non per scarso interesse: tutt’altro. Sa che comunque i retroscenisti in servizio permanente effettivo ( non quelli dei giornali, sostanzialmente innocui: gli altri, quelli nascosti che hanno lo sguardo lungo...) sogghignano, sicuri che tra lui e Silvio l’intesa post urne per un governo insieme è già sottoscritta e la riforma elettorale deve nient’altro che facilitarla. Forse. Ma attenzione alla volubilità dell’elettorato e ai capricci del destino che altri prima di lui hanno già descritto come «cinico e baro». In realtà Renzi la sua legge elettorale l’aveva già delineata: era l’Italicum che il referendum costituzionale ha spazzato via. Poi è stata la volta del sistema tedesco, silurato in aula alla Camera dalle armate dell’“Accozzaglia”, la medesima del 4 dicembre, stavolta all’opera nel segreto degli scrutinii. Non c’è due senza tre, ma Matteo ne fa volentieri a meno. Se pure in questa occasione tutto finirà a gambe all’aria potrà non solo dire di non essersi messo di traverso ma anche che le macerie non lo riguardano. Perchè in fondo chi lo conosce sa che quel brillìo che continua ad acquattarsi negli occhi disvela il suo sogno segreto: arrivare al 40 per cento, prendersi il premio di maggioranza del Consultellum, vedersi spalancare davanti di nuovo il portone di palazzo Chigi e all’insegna di quel sorriso che solo gli ingenui considerano bonario, fare un grandioso gesto dell’ombrello a tutti quelli che lo davano per morto già mesi fa.
Poi c’è il fronte dei No. A cominciare dai Cinquestelle assiepati sotto l’effigie del “nuovo” leader Luigi Di Maio. «A quelli non va mai bene niente», attacca Salvini. Mica vero. Gli va bene tutto ciò che va male a tutti gli altri. Sognavano di esibirsi in una competition uno- contro- uno con Renzi, sicuri di batterlo. Invece adesso gli mettono sotto il naso una tagliola pronta a scattare: le odiate alleanze unitamente ai candidati nei collegi uninominali, quelli territorialmente recintati dai partiti tradizionali. Logico che sparino a zero. E poi sanno che il vento elettorale è una girandola impossibile da fermare. Adesso ammoscia le loro vele e intestarsi la battaglia dei Davide soli contro i Golia asserragliati nel Palazzo della Casta, scatenati nella campagna eletorale al grido di “fanno la riforma contro di noi”, può aiutare a riacchiappare favorevoli alisei. Refoli indisponenti sussurrano che Grillo in realtà lavora per non vincere, per restare all’opposizione. Balle. Vuole vincere eccome. Perchè sa che se perde, tra cinque anni del suo esercito di adoratori della Rete potrebbe restare poco o nulla.
D’Alema e Bersani - non è chiaro se da soli o con Pisapia, anche se tutto sommato non è che faccia grande differenza - sul palcoscenico ci sanno stare eccome. A differenza del dramma pirandelliano, loro la parte da recitare la conoscono eccome. Hanno la sciolina in tasca e sono pronti a spargerla non appena il profilo di Renzi si staglierà sulla scena: un capitombolo elettorale, l’ennesimo, e oplà non se parli più. La loro forza è che non hanno nulla da perdere. Matteo li aveva già rottamati e invece sono ancora lì, dentro al copione: vuoi quale maggiore soddisfazione?
Magari alla fine ancora una volta la riforma crollerà sotto il peso dei veti contrapposti e il sipario calerà sui sei personaggi mentre ancora è in corso la recita. Niente paura. Si replica alle politiche del 2018. Stesse facce, stessi ruoli. Forse solo ancor meno spettatori. Ma quello per i sei è l’ultimo dei problemi.