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La Gran Bretagna doveva uscire dall’Unione europea tassativamente entro il 29 marzo, poi rigorosamente entro il 12 aprile, adesso decisamente lo farà entro il 31 ottobre. Theresa May chiedeva il 30 giugno, Merkel puntava alla notte di Capodanno, Macron - con un discorso veemente nel quale ha accusato i leader europei di fare il doppio gioco, e come vedremo non aveva tutti i torti (“Sembrava ebbro del proprio potere”, avrebbe commentato uno dei leader presenti, secondo il Financial Times) ha imposto il 31 ottobre. A parte le crepe nell’asse franco- tedesco, emerse pure in un incontro bilaterale Merkel- Macron prima del Consiglio Ue, una tipica soluzione europea di compromesso.
Ma perché l’Europa si presta al gioco di Theresa May, che ha già sottoposto al voto di Westminster per ben 3 volte l’accordo con Bruxelles per un’uscita ordinata dalla Ue vedendoselo sempre respingere ( per quanto ogni volta lo avesse limato qua e là al fine di raggranellare voti) e che ora ci proverà una quarta? May non ha ovviamente partecipato all’animata discussione che ha messo la data limite a fine ottobre ( cosa che però dagli inglesi è vista come un’umiliazione) e appena tornata in patria è corsa alla House of Commons esortandola a dare il via libera al deal entro il 22 maggio: se verrà fatto - ha promesso ancora una volta- darà le dimissioni.
Ma non si vede perché stavolta dovrebbe funzionare. Anche perché non stan portando da nessuna parte gli incontri, tardivi, tra una premier come May, tory contraria alla Brexit alla testa di un partito ad alta densità di Brexiter, e un aspirante premier come Corbyn, euroscettico alla testa di un partito laburista che pullula di giovani euroentusiasti. Il gioco di May, che in tre anni di trattative dalla resilienza è passata alla testardaggine, rischia anche di polverizzare politicamente il proprio partito e di fare la fortuna di una vecchia volpe come Nigel Farage, il primo dei populisti xenofobi all’onore del mondo, che ha già annunciato che si ricandiderà.
Un incrocio perverso di circostanze, cattiva politica e pessime leadership sta minando seriamente la Gran Bretagna, la più antica democrazia al mondo e pure il luogo in cui è nato il parlamentarismo. Nessuno è in grado di prevedere come andrà a finire.
Ma perché l’Unione europea si è prestata ad addensare il già alto tasso di entropia in cui la vicenda Brexit è immersa?
Con la “flextension” al 31 ottobre Bruxelles ributta la palla in campo inglese, «sta a voi decidere, amici britannici, non sprecate il tempo stavolta...» sorrideva Donald Tusk. Si tratta certo anche delle speranze dei veri europeisti, come Merkel, di tenere il Regno Unito nella Ue. Magari, è il sottinteso, potrà anche accadere che tra le due alternative secche che il time limit pone, no deal o disdetta dell’applicazione dell’articolo 50, Uk infine scelga di non uscire dall’Europa.
Ma invece, man mano che passano le ore da un Consiglio europeo finito con conferenze stampa alle 2 e mezza del mattino, emerge chiaro che essendo grande la confusione sotto i cieli britannici si poteva trarne qualche vantaggio. Specialmente cambiando linea a 180 gradi rispetto a quel che Juncker aveva detto a May nel loro ultimo incontro: data limite al 22 maggio, per evitare che il Regno Unito debba partecipare alle elezioni europee. Ecco, e se invece Uk partecipasse? Messo ben in chiaro che comunque il Regno Unito non potrà partecipare a nessuna decisione europea, a nessun livello, quei deputati potrebbero far comodo. Alle prossime europee il Labour è dato ( secondo l’ultima rilevazione di Open Europe) al 38 per cento, e date le cattive condizioni in cui versano gli altri partiti fratelli potrebbe dunque essere il più forte gruppo nazionale nel Pse. Mentre i Popolari europei dovranno fare a meno di quel 12- 13% di seguaci di Orban, che han da poco sospeso. Poi, un Pse rafforzato potrebbe stringere alleanza con En Marche di Macron, i liberal- democratici dell’Alde, i Verdi, parte delle sinistre radicali... Andrebbe insomma in porto il progetto di un robusto fronte comune contro le destre populiste e nazionaliste, piano che era già idealmente e trasversalmente concordato. Ma con una importante novità: rendendo possibile la rottura dello schema quarantennale su cui l’Europa si regge, ovvero l’alleanza tra Ppe e Pse. Alleanza a trazione Ppe, va detto, responsabile a livello di Consiglio di molte delle impostazioni rigoriste ( e ordoliberiste) che han funestato la storia recente del Vecchio Continente. Chi si è incaricato di dire pubblicamente «non è affatto detto che funzioni, ma bisogna provarci» è Franz Timmermans, commissario olandese della Ue e Spitzenkandidat - candidato a presiedere la prossima Commissione Ue - dei Socialisti europei. Ma il piano non avvantaggerebbe solo il Pse: la Ue vi ha intravisto un mezzo per rafforzarsi, per reggere l’onda d’urto con la quale dall’Atlantico, centrale globale dei sovranismi, la si vorrebbe atterrare. Resta come sempre da vedere se da due debolezze potrà nascere una forza, almeno per qualcuno.