PHOTO
Un magistrato sa di non avere strumenti per rimediare alla «debolezza della politica», come la definisce il dottor Antonio Sangermano. Sa di non potersi neppure sostituire al legislatore. Eppure il componente del direttivo Anm e sostituto procuratore a Prato – casa sua e destinazione gradita dopo gli anni a Milano in cui tra l’altro è stato pm al processo Ruby – prova a «proporre una riflessione anche su quello che è inevitabilmente il tema del giorno, l’immigrazione, e su una misura dolorosa, innanzitutto da punto di vista morale e religioso: arrivare a espulsioni immediatamente efficaci per gli immigrati che hanno commesso reati sul territorio nazionale. Lungi dal pretendere di indicare un dispositivo di legge: è una riflessione, punto». Certo un’analisi, per Sangermano, è doverosa anche a proposito della perdita di consenso sofferta dalla politica, che non si risolve con una supplenza da parte dell’ordine giudiziario. E anzi, «se la magistratura si sostituisse alla politica farebbe un danno innanzitutto a se stessa» .
Partiamo da qui allora: mai come adesso la politica è al fondo dell’indice di gradimento, e voi magistrati vi rendete conto ancora meglio, forse, che non potete sostituirla: è così?
Credo che la magistratura non debba fare da supplente, vorrei chiarirlo subito. Il magistrato ha interesse a che la politica sia forte e autorevole e nello stesso tempo rispetti l’autonomia e indipendenza dei giudici. Se assumiamo un ruolo di supplenti, indeboliamo lo stesso ordine giudiziario.
Perché, esattamente?
Una supplenza dei magistrati certifica il fallimento dello Stato, attribuisce loro un funzione in assenza di legittimazione democratica. Anche se processi del genere non si attivano per volontà espansiva, rappresentano comunque una delegittimazione del sistema: la magistratura è un potere dello Stato, si fortifica quanto più solida è la legittimazione del sistema nel suo complesso.
D’accordo, ma allora Mani pulite come si colloca in questa sua condivisibilissima analisi? Premessa: considero Mani pulite un momento di riscatto nazionale al pari del Risorgimento e della Resistenza, in ufficio ho la foto del Pool. Il punto è che se un potere viene meno ai suoi compiti, se nello specifico è un’intera classe politica a venir meno, la magistratura deve fare il proprio dovere. In un caso come quello di Mani pulite può verificarsi che la notevole quantità degli illeciti faccia apparire l’azione giudiziaria come il processo a un fenomeno. Ma è solo la diffusività del fenomeno a creare la percezione. D’altronde gli effetti che ne derivano tornano a un certo punto nel do- minio della politica, come avvenne dopo il ’ 92-’ 93, quando il vuoto creatosi favorì l’affermarsi di nuovi soggetti come il partito di Berlusconi.
Senza volerla indurre a sostituirsi al legislatore, il tema dell’immigrazione va affrontato semplicemente con una rigorosa distinzione tra chi ha diritto all’asilo e i migranti economici?
No, temo di no. Che l’accoglienza sia la soluzione più consentanea ai principi di moralità ed etica non c’è dubbio. Sono contrario ai respingimenti in mare: ma l’aspirazione etica va coniugata con i dati di realtà, il che vuol dire riconoscere che un’accoglienza indiscriminata crea un’effettiva insicurezza sociale.
E qual è il punto di equilibrio?
L’integrazione deve coniugarsi a dei doveri, il primo dei quali è il rispetto della legalità. Ora, se prendiamo i curricula di chi in questi mesi si è reso responsabile di stragi in Paesi europei, sarà difficile trovarne uno che non abbia precedenti per reati commessi in quegli stessi Paesi o in altri del Vecchio Continente. Ecco perché dovremmo riflettere sull’opportunità di rendere obbligatoria e non più facoltativa l’espulsione di chi commette reati sul territorio nazionale.
Si dovrebbe attendere la condanna definitiva?
No, d’altronde la norma vigente già prevede la possibilità di espellere all’esito di un primo accertamento del reato. Va fatta attenzione a possibili profili di incostituzionalità o di incompatibilità con il diritto europeo. E so che l’obbligatorietà e l’effettività manu militari delle espulsioni va ad impattare con aspetti delicatissimi come i ricongiungimenti familiari. Ma credo si debba riservare una particolare attenzione al profilo della sicurezza. Non v’è dubbio che il legislatore dovrebbe trovare una forma normativa il più possibile umanizzata. Così come si dovrebbe tener conto del fatto che non c’è solo il terrorismo, ma anche il caso di chi reitera sul territorio nazionale reati di altra natura.
Le espulsioni pongono il problema dei Paesi d’origine, spesso poco collaborativi, in materia.
Però ad esempio il Paese d’origine di Anis Amri, la Tunisia, se li riprende.
Da componente del direttivo Anm, condivide le critiche aspre rivolte dal vostro presidente Davigo ai partiti, responsabili a suo giudizio di non allontanare subito chi è accusato di corruzione?
Ho un grande rispetto per il presidente Davigo. È una persona di rara cultura e di garbo esemplare, ma non concordo con lui su tutto. La politica ha il dovere di vigilare al proprio interno e ha senso ricordarlo, ma senza che questo appaia come una sorta di monito morale. A noi spetta accertare i reati. Possiamo suggerire soluzioni ma senza che sembrino la scure di Danton.
Certo Davigo ha grande visibilità: potrebbe convenire all’Anm prorogare la sua presidenza?
Credo che Davigo sia un ottimo presidente. E che la sua visibilità mediatica giovi all’intera magistratura, perché consente di far affiorare giuste rivendicazioni. Nel corso di quest’anno abbiamo ottenuto risultati, e mi lasci dire che questo credo dipenda anche dall’impegno della mia componente, Unicost, servito a smussare posizioni talvolta non condivisibili. Davigo ha avuto grande intelligenza politica nell’incontro con Renzi di fine ottobre: credo che nella misura in cui saprà portare a sintesi le diverse anime dell’Anm sarà un ottimo presidente, non lo sarà se prevalesse un’inclinazione al protagonismo.
Ma potrà restare presidente anche oltre aprile?
L’accordo fissa quella scadenza e non penso che lui abbia intenzione di andare oltre, ha già pubblicamente dichiarato di non vedere l’ora di concludere il mandato.
È vero che molti giudici si lamentano dei criteri seguiti dal Csm nell’assegnare gli incarichi, e che sarebbe necessario chiarirli?
Guardi, in questa consiliatura l’organo di autogoverno ha predisposto un testo unico che definisce le regole per l’attribuzione di direttivi e semidirettivi: la trovo una conquista storica. In precedenza la progressione di carriera avveniva per mera assenza di demerito, si è stabilito che invece deve basarsi sul merito. È il Csm che ha titolo a fare le valutazioni: poi certo, il testo unico deve completare una fase di rodaggio, ma al Consiglio superiore si deve dare atto della scelta innovativa. E personalmente credo che non si dovrebbe mai delegittimare il Csm: in questi anni ha assicurato davvero l’autonomia e l’indipendenza di noi magistrati.