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Dal Premio Nobel per la Pace alle aule del Tribunale Penale Internazionale per fronteggiare accuse di genocidio proprio nella Giornata Mondiale per la tutela dei diritti umani. È paradossale e complicata al parabola della leader birmana Aung San Suu Kyi, che peraltro è chiamata a difendere davanti al mondo i suoi vecchi persecutori.
Tutto nasce dalla questione dei Rohingya, la popolazione islamica di una provincia del Myanmar che i birmani non considerano cittadini ma immigrati bengalesi illegali, e contro cui negli anni passati si è scatenata un’operazione che ha portato alla fuga di molti profughi verso il Bangladesh. Aung San Suu Kyi ha vinto il premio Nobel per la Pace nel 1991, è stata però tenuta per 15 anni agli arresti in patria dove si è sempre opposta pacificamente alla giunta militare che governava con pugno di ferro il Paese, è riuscita a dare vita a un movimento democratico non violento che alla fine ha portato i generali a farsi parzialmente da parte e a indire elezioni che il partito di San Suu Kyi ha vinto.
Con dei vincoli imposti dai militari, tra cui il fatto che formalmente la Nobel non può assumere direttamente le cariche di Governo. Per questo dal 2015 ella è stata nominata Consigliere di Stato, un ruolo che però grazie alla sua autorità la colloca ai vertici del Paese. Ma in un gioco di difficili equilibri. L’ombra della giunta militare infatti incombe sempre sul Paese e sul governo, ed è esplicita la minaccia che possa riprendere le redini del Paese se qualcosa non va come desidera.
E questo è stato forse il caso dell’operazione contro i Rohingya: l'esercito nel 2017 e 2018 secondo le accuse ha compiuto una campagna di persecuzione con bombardamenti, incendio di villaggi, esecuzioni sommarie, stupri sistematici. Secondo il governo si è trattato di reazione ad attività insurrezionali e terroristiche. Per gli osservatori sul campo dell'Onu un'epurazione etnica che ha messo in fuga almeno 700 mila civili.
La Commissione Onu per i diritti umani ha definito la persecuzione dei Rohingya in Myanmar «un libro di testo di pulizia etnica, un tentativo di genocidio».
In tutto ciò Aung San Suu Kiy si è distinta per non aver preso posizione a difesa dei Rohingya, nonostante le numerose sollecitazioni internazionali. Un po’ probabilmente per non indispettire i generali, un po’ perché il suo popolo in fondo condivide molti pregiudizi: per la maggioranza buddista del Myanmar i Rohingya sono «musulmani bengalesi» da cacciare.
All’udienza presso il Tribunale dell’Aja San Suu Kyi è presente come testimone, e come madre nobile del suo Paese proverà a difenderlo dopo che è stato citato in giudizio dal Gambia, a nome dell'Organizzazione per la cooperazione islamica. All'udienza il procuratore generale Abubacarr Marie Tambadou ha accusato: ' Un altro genocidio si sta svolgendo proprio davanti ai nostri occhi eppure non facciamo nulla per fermarlo”.
La linea di difesa della leader birmana è sempre la stessa: «quello dei profughi del Rakhine è solo uno dei molti problemi e bisogna indagare». Lei interverrà oggi, e domani si dovrebbe concludere la fase del procedimento in cui si decide se aprire o meno un vero processo per genocidio.