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Il reinserimento sociale dei condannati, uno dei temi a più alto tasso di elusione
di Vincenzo Comi* e Antonio Mazzone** La situazione nelle carceri, riguardante decine di migliaia di operatori penitenziari e di detenuti, a causa dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, impone soluzioni immediate ma è anche l’occasione di riaprire, seriamente e consapevolmente, il dibattito, politico-ideologico e giuridico, quasi interrotto dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso a causa del declino delle ideologie più sensibili ai bisogni e al rispetto della persona umana, sul rapporto tra modalità di esecuzione della pena, effetti di prevenzione generale e speciale e attività sociali di controllo, da una parte, e forme di risocializzazione in relazione a condotte devianti, dall’altra. In altre parole, è di fatto passato di moda il nodo del rapporto tra modalità di esecuzione della pena e struttura sociale. Si tratta dunque di riprendere un dibattito che non sia meramente teorico e fine a se stesso, ma che sia finalizzato a progettare modelli di prevenzione sociale e di esecuzione pena più efficaci sotto i profili del riassorbimento di condotte devianti, della risocializzazione dei soggetti a rischio e del reinserimento sociale dei detenuti/condannati. L’obiettivo deve per forza consistere nell’individuare modelli che comportino, sul piano personale, sociale ed economico, “costi” minori, e che producano effetti migliori. I risultati ottenuti in alcuni istituti penitenziari, caratterizzati da modalità di esecuzione della pena particolarmente attente ai profili di reinserimento sociale dei detenuti, in termini di percentuali significativamente più basse di recidiva, dimostrano che il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena non costituisce una mera utopia e consente, invece, una sua precisa attuazione. Ricominciamo a chiederci, in uno Stato democratico, di diritto e sociale, e in una società a capitalismo limitato e controllato, come possa relazionarsi la funzione sociale della pena con la struttura della società, e come possa pianificarsi un circuito ottimale tra le modalità di esecuzione della pena e il mercato del lavoro (leggi, inserimento nello stesso del detenuto). Si tratta di riprendere a occuparsi delle cause, individuali e sociali, del reato, e di modulare al risultato di tale ricerca la risposta più efficace, che non deve esaurirsi soltanto in quella penale (osiamo dire, non deve essere necessariamente penale), ma che può essere individuata sul piano sociale, psicologico, culturale ed economico. Per fare un esempio: l’aumento o la diminuzione dei reati contro il patrimonio dipendono dalle condizioni economiche di una società (condizioni economiche migliori comportano una diminuzione di tali reati), e non dalla capacità di repressione da parte dello Stato: è evidente che, in uno Stato che voglia raggiungere risultati ottimali in relazione alla prevenzione di tali reati, l’intervento di “ricomposizione sociale” non dovrebbe avvenire mediante l’irrogazione e l’esecuzione di una pena, ma mediante la rimozione della situazione individuale di disagio economico. Non è certamente nuova la domanda se vi siano (e quali siano) strumenti più adeguati (sul piano della capacità rieducativa dell’intervento statuale e, di conseguenza, sul piano della prevenzione generale e speciale), rispetto al carcere, al sistema di valori espresso dalla civiltà occidentale. La risposta a una tale domanda richiede accurate valutazioni sul piano ideologico, sociologico, psicologico ed economico. Ma è certo che la risposta a tale domanda non può che essere positiva, anche in un contesto sociale come quello italiano caratterizzato da condotte devianti fortemente disomogenee rispetto a modelli comportamentali socialmente legittimi e coerenti con l’evoluzione della civiltà occidentale (si pensi ai valori insanabilmente conflittuali con quelli fondanti della nostra società espressi dalle organizzazioni criminali: ma anche in tal caso la prospettiva delle modalità di esecuzione pena deve essere quella della rieducazione/risocializzazione). Non è difficile contemperare le esigenze di difesa sociale con quelle di rispetto della persona umana: anzi, la migliore difesa sociale si attua mediante la rieducazione e il reinserimento sociale del condannato. Prospettiva, questa, che richiede, innanzitutto, un’istituzionalizzazione del rapporto tra gli organi preposti a gestire le modalità di esecuzione della pena e le organizzazioni rappresentative della produzione e del lavoro. E richiede, poi, un coordinamento tra la fase dell’intervento (magari da parte di nuclei specializzati composti da operatori sociali, collegati anche alle organizzazioni rappresentative dei settori produttivi, e da forze dell’ordine) “prima” della commissione di un reato, in presenza di situazioni di disagio personale e ambientale incentivanti condotte devianti, per prevenirne gli sviluppi, mediante la rimozione delle cause (con adeguati e ben delineati poteri di incidenza non penale), e quella dell’intervento “dopo” la commissione di un reato, per favorire, sempre attraverso il collegamento col mondo della produzione e del lavoro, il reinserimento sociale del condannato. *avvocato, vicepresidente della Camera penale di Roma **avvocato