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Un jihadista vicino a Fatah al Sham, la vecchia Jabhat al Nusra? Oppure un golpista della Feto, l’organizzazione di Gulen? Chiunque sia Mevlut Mert Altintas, il 22enne poliziotto turco che lunedì ha ucciso ad Ankara l’ambasciatore russo Andrei Karlov, non ha raggiunto l’obiettivo urlato alle telecamere: onorare la memoria di Aleppo. Non ha ostacolato né l’incontro fra i ministri degli esteri di Russia, Iran e Turchia, che si è svolto regolarmente ieri a Mosca, né quello in programma il 27 dicembre, sempre a Mosca, fra i presidenti Putin, Erdogan e Rohuani. «L’attentato ci rende ancora più determinati nel perseguire la pace in Siria» ha detto il ministro russo Sergei Lavrov. Se possibile, Altintas ha raff forzato ancora di più il capofila di questo schieramento: Vladimir Putin. Partiti da caselle diametralmente opposte - Erdogan a fianco dei ribelli, Putin alleato di Assad - i due si sono ritrovati in un’alleanza forzata.
Ma il presidente turco è nella scomoda posizione di debitore. Il conto si è aperto a novembre 2015, quando un jet russo con due piloti a bordo venne abbattuto dalla contraerea turca sul confine siriano. Seguirono mesi di tensioni, finiti il 9 agosto con un incontro fra i due leader che sancì definitivamente il passaggio della Turchia fra coloro che potrebbero tollerare una permanenza di Assad in Siria.
In cambio del riposizionamento, russi e iraniani hanno dato via libera alla Turchia nel Nord della Siria, dove i curdi siriani, fratelli dei curdi turchi del Pkk, hanno conqui- stato l’autonomia su un territorio già troppo vasto agli occhi di Ankara. Salvati il villaggio di Kobane, la regione occidentale di Afrin e il quartiere settentrionale di Aleppo dove sono maggioranza, le milizie curde Ypg e Ypj sono vicine a ricongiungere la Siria settentrionale. Per non ritrovarsele lungo tutto il confine, le truppe turche hanno sconfinato nella regione di Jarablus, hanno scacciato i curdi dalla vicina Manbij e adesso si possono dedicare ad al Bab, città fra Aleppo e la regione curda, controllata dall’Isis.
Sacrificata Aleppo est per riallacciare con Mosca, a Erdogan non serviva che Altintas uccidesse l’ambasciatore Karlov. Il sindaco di Ankara e i media vicini a Erdogan e al suo partito, l’Akp, si sono affrettati a trovare legami fra Altintas e Gulen, accusato da Erdogan per qualsiasi cosa succeda in Turchia dopo il “colpo di Stato” del 14 luglio. Altintas, originario di Aydin sulla costa Egea, avrebbe ricevuto un’istruzione militare al college militare Rüstü Ünsal, considerato vicino a Gulen. Il suo diretto superiore, Kaharaman Sezer, sarebbe uno delle migliaia di ufficiali arrestati per il fallito golpe. Proprio in quei giorni di luglio Altintas era in licenza con il permesso di Sezer, nonostante tutti i suoi colleghi fossero stati richiamati. Indizi che, oltre al presunto ritrovamento di materiale pro- Gulen nel suo appartamento di Ankara, sarebbero sufficienti ad affiancare Altintas alla Feto.
Di sicuro c’è che Altintas ha passato gli ultimi due anni e mezzo nei reparti antisommossa di Ankara, in due occasioni ha fatto parte della scorta presidenziale e ha preparato nei dettagli l’attentato a Karlov. Dopo aver preso due giorni di ferie, ha prenotato una camera in un hotel vicino al Modern Art Center dove Karlov avrebbe presenziato alla mostra fotografica sulla Russia, si è vestito di tutto punto, ha rifiutato il controllo al metal detector mostrando il suo tesserino da poliziotto, si è posizionato dietro Karlov e lo ha freddato alle spalle con nove proiettili. Approfittando delle telecamere, Altintas ha poi fatto intendere che l’attentato era una vendetta: «Noi moriamo ad Aleppo, tu ( Karlov, ndr) muori qui oggi» e ha recitato la formula di adesione al jihad. Sono mesi che in Turchia sigle jihadiste rivendicano attentati in risposta al voltafaccia di Erdogan sulla Siria.
Negli ultimi giorni migliaia di manifestanti hanno protestato sotto le sedi della diplomazia russa per la carneficina ad Aleppo. Non sarebbe strano se il gesto di Altintas rientrasse in questo quadro. L’ultimo omicidio di un diplomatico russo all’estero risale al 1903 e Karlov è il primo ambasciatore assassinato nella Repubblica turca dalla sua fondazione nel 1923. Dati che mettono in luce come, nonostante purghe, arresti e strette autoritaria, nella Turchia di Erdogan non esiste sicurezza, nemmeno per le autorità straniere. Adesso diciotto specialisti russi sono ad Ankara per aiutare le indagini che già hanno portato a sei arresti: i familiari e il coinquilino di Altintas.
Nel frattempo ieri Lavrov, Zarif e Cavusoglu hanno discusso sul da farsi in Siria. I tre hanno firmato un documento in cui s’impegnano a fare da garanti nelle future trattative politiche fra Assad e le opposizioni. Cavusoglu ha chiesto che da un eventuale cessate il fuoco fossero esclusi non solo l’Isis e le sigle jihadiste, ma anche i libanesi di Hezbollah che combattono al fianco dei governativi siriani. «Assad li ha chiamati, quindi sono legittimati a restare come russi e iraniani» ha riposto Lavrov. Probabilmente ha ragione Selim Sazak, ricercatore turco del think- thank newyorkese Century Foundation: «Con l’attentato contro Karlov i giochi in Siria per la Turchia sono finiti» perché il creditore Putin difficilmente fa sconti.