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Roma l'Eterna, eternamente contesa. Le Comunali sono virtualmente lontane - il mandato di Virginia Raggi scade a giugno del 2021, salvo improbabili crisi per ora tutte abilmente superate - ma per la Capitale i nomi per il totosindaco iniziano a filtrare, soprattutto a sinistra. Sussurrati a mezza bocca durante le assemblee politiche, di solito con un punto di interrogativo per sondare il gradimento dell'interlocutore, oppure lasciati intendere durante le cene e negli incontri salottieri dove ancora si determina una parte del ' sentiment' per il primo cittadino.
Non serve dirlo: per sconfiggere ( nemmeno troppo difficilmente, secondo la percezione corrente) Virginia Raggi e per sperare di battere ( se decidesse di scendere in campo) Giorgia Meloni, serve una donna. Il Pd, per ora, ne ha già due a contendersi l'investitura. L’unico tratto in comune è il 1980 come anno di nascita, ma più diverse non potrebbero essere.
La prima è Marianna Madia: cognome potente nell'alta borghesia capitolina e l'unica, nell'elenco delle donne dem legate a doppio filo a un leader, ad essere sopravvissuta a tutti i suoi mentori, oltre che alle serpeggianti accuse di raccomandazione. Da Enrico Letta che la scoprì, a Walter Veltroni che la volle in Parlamento nel 2008, poi vicina di scranno di Massimo D'Alema e infine illuminata da Matteo Renzi, fino a Nicola Zingaretti oggi: Madia è rimasta sia durante il sereno che con la burrasca.
Che il Campidoglio sia una sua ambizione è il segreto peggio conservato di Roma: già nel rutilante mandato di Ignazio Marino - ultimo sindaco di centrosinistra mandato a casa da una congiura interna - il suo era il nome più papabile per sostituire il Marziano. All'epoca era la ministra della Pubblica amministrazione e aveva appena finito di battere Roma palmo a palmo, a suon di feste dell'Unità e incontri nelle sezioni, per conquistare più di cinquemila voti alle primarie per scegliere i deputati dell'annata 2012. Poi, dopo il pasticcio Marino, la candidatura cadde sul nome di Roberto Giachetti: lei ne rimase fuori, conscia che si trattava di una sfida quasi persa.
Pochi giorni fa - dall’alto del suo scranno della Camera, conquistato al collegio uninominale conquistato nel collegio di Roma 2, Montesacro -, ha rilasciato una tattica intervista alla Stampa ( giornale nobile e lontano dal chiacchiericcio della Capitale) e ha parlato proprio dello stato di Roma dopo l’accordo di governo tra Pd e 5 Stelle, sentenziando: «L’ostacolo a qualunque prospettiva di collaborazione a Roma è la Raggi». Parole forti, seguite dalla risposta alla domanda che tutti hanno sulla punta della lingua: si candiderà a prima sindaca donna del centrosinistra romano? «Certo che no. Ma mi piacerebbe contribuire a ridare dignità alla capitale». Uno di quei no che suonano come dei sì fino a prova contraria.
La sua, però, non sarà una cavalcata in solitaria fino al 2021: a contenderle la candidatura, un nome uguale e antitetico. Forse meno conosciuta ma più radicata in città, ad affacciarsi è la consigliere regionale ( si è da poco dimessa da consigliera capitolina dopo quasi due anni di doppio incarico) Michela di Biase.
La sua è una storia di gavetta amministrativa, cominciata giovanissima da consigliera di municipio nel periferico quartiere dell’Alessandrino e poi su e su fino all’Aula Giulio Cesare. Di poche parole e ancora meno interviste, di lei si conoscono la grande capacità di lavorare sul territorio e il nome del marito, l’attuale ministro della Cultura, Dario Franceschini.
Proprio lui, nella smania di aiutarla nella raccolta di preferenze nella scorsa corsa al Comune, inviò a mezza Roma sms in cui chiedeva voti per lei. I risultati sono arrivati: più votata al Comune nel 2016 con 5 mila preferenze, seconda più votata alla Regione nel 2018 con oltre 13mila voti. Per ora, lei ha conservato il basso profilo e non ha rilasciato nessuna dichiarazione pubblica fuori dalle righe, ma i movimenti nel Pd romano sono chiari: l'ordine di scuderia è di «far girare il nome di Michela», accreditandola il più possibile, perché una parte consistente del partito è pronto a investire su una sua candidatura, contro quella di una dirigente non percepita come espressione della città.
Eppure, i più cinici conoscitori della psicologia del voto romano sussurrano a bassa voce un’altra verità: entrambe sono funzionali ad animare il gossip pre- elettorale, ma al momento dell’accensione dei motori il vero cavallo di razza sarà un altro. Romano doc, uomo e non del Pd anche se oggi siede a Bruxelles proprio grazie ai dem: Carlo Calenda.