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I cellulari non stanno in silenzio un attimo, le chat ribollono. Non solo tra i pentastellati finiti sotto la soglia della doppia cifra, anche nel Pd che tutto sommato in Umbria ha tenuto - la situazione è incandescente.
Il segretario Nicola Zingaretti, l’unico che nella jellatissima foto di Narni sorride abbracciando i vicini Bianconi e Speranza come se credesse davvero alla possibile rimonta, si aggira cupo per il Nazareno. Non sa da che parte voltarsi.
Da un lato a scaldare le polveri c’è Goffredo Bettini, gran burattinaio della Capitale, padre spirituale del segretario e sempre più il cervello politico dietro le scelte. E’ suo il commento post elettorale che dice apertamente: le elezioni non sono un tabù, «la pazienza del più grande partito della sinistra non è infinita». Due i destinatari: Luigi Di Maio, ormai convinto che l’unica linea di sopravvivenza ( sua, oltre che del Movimento) sia giocare sui distinguo dal Pd; Matteo Renzi, che punta ad attestare la sua Italia Viva proprio facendo il controcanto ai dem.
Per entrambi il messaggio è chiaro: il Pd non si farà cuocere a fuoco lento e se stacca la spina per entrambi sarebbero dolori. I 5 Stelle perderebbero, bene che vada, più della metà dei parlamentari. Renzi e il suo partito ancora verde verrebbe liquefatto dal Rosatellum.
Una via pericolosa, quella del voto, anche per i dem, ma secondo Bettini preferibile a venir schiacciati tra l’incudine e il martello dei due leader riottosamente alleati, continuando «Lo spettacolo di questi mesi» che «ha confermato che gli egoismi di partito prevalgono sempre sugli interessi generali». A seguirlo a ruota su questo terreno è l’ex ministro Andrea Orlando, ora ombra del Guardasigilli Alfonso Bonafede. Il voto «è la conseguenza, se si prende atto che questa esperienza non è in grado di andare avanti».
E tra gli zingarettiani il comune sentire è sintonizzato con il bettinian- pensiero. «Il governo non è nato per galleggiare ma per un programma di riforme», ragiona Roberto Morassut, «e se il voto in Umbria diventa occasione per derogare da questo e per distinguersi, come ha fatto di Maio», allora meglio staccare la spina. Gettare il cuore oltre il baratro di un voto che costringerebbe i dem all’opposizione di un governo di destra quasi pura a guida Salvini non è semplice, ma potrebbe fare pulizia, è il ragionamento di molti. I 5 Stelle ridotti al lumicino, il Pd depurato dalle ultime scorie renziane, auspicabilmente un’Italia Viva troppo gracile per resistere alla tempesta elettorale con un risultato utile. Cinque anni di opposizione, poi si torna a giocarsela con un ritrovato solido bipolarismo.
Eppure, la via non piace a tutti. Meno che mai al potente ministro Dario Franceschini, che anche dopo la debàcle umbra è tornato a difendere l’alleanza a tutti i costi coi 5 Stelle, da rodare un po’ ma tutto sommato unica alternativa credibile. Lui, incontrastato alfiere dem al governo, tesse una tela a maglie strette coi grillini e, pragmaticamente, non ssta a guardare in bocca a un governo donato, di fatto, dalle mosse dell’odiato Renzi. Per dirla in latino, «meglio e più sicura una pace certa ad una vittoria incerta».
Il segretario, sballottato tra due venti contrari, tende a fidarsi più del vecchio maestro Bettini ( in assenza dell’ex consigliere Paolo Gentiloni, preso dalle grane europee), tanto da scegliere la sua stessa formula, nel faccia a faccia di maggioranza. «Non voglio andare al voto, ma...», è quello che dice a Di Maio. E dopo quel “ma” c’è un avvertimento esplicito: «La maggioranza deve cambiare passo, litigare meno e produrre di più».
Sul fronte interno ai dem, però, è tornata a circolare un’altra parola: congresso. Lo chiedono gli alleati di Zingaretti, lo chiedono anche i suoi oppositori e tutti - sorprendentemente - per la stessa ragione: «Serve un riposizionamento strategico del partito». Tradotto: Zingaretti deve venire investito da un nuovo mandato della base, per poter sostenere ( o meno) una scelta di campo come la stabilizzazione dell’accordo coi 5 Stelle, al netto dell’affare umbro. «Lo ritenevo necessario, ma adesso lo ritengo urgente», conferma Orlando.
«Il Pd deve aprirsi a una fase di radicale cambiamento», asserisce Morassut, da sempre promotore di una rinascita del Pd «in un nuovo soggetto politico più aperto» attraverso un «congresso per tesi centrato sulla politica, come ha detto Zingaretti». Il segretario «deve fare subito un congresso vero, un congresso dove dicano finalmente la loro gli iscritti», chiede anche il vecchio saggio Emanuele Macaluso, a completamento della transizione post- renziana. Dello stesso parere ma per ragioni opposte, Matteo Orfini ( il più critico nei confronti dell’alleanza giallorossa) che affonda: «Si faccia il congresso, perchè non è nel mandato di Zingaretti l’accordo con i 5 Stelle. Se si vuole rilanciare l’alleanza c’è l’obbligo di chiamare gli elettori a pronunciarsi» . Lo stesso Zingaretti non è contrario all’idea: una nuova legittimazione al suo operato, soprattutto dopo la scissione, potrebbe essere - nei fatti - l’unica via percorribile per rivitalizzare un partito ancora intontito e per ridare al suo ruolo una centralità che sembra sempre più appannata.