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Se per la maggioranza è nel mezzo della sua settimana horribilis, l’opposizione non sta meglio. Tav e Russiagate dovevano essere gli scogli su cui si sarebbe dovuta infrangere l’alleanza Lega e 5 Stelle, invece si sono trasformate in boomerang lanciato ad alzo zero contro il Nazareno, che riunisce oggi una direzione nazionale sull’orlo della crisi di nervi.
L'alleanza con i 5Stelle A tenere banco è ancora il dilemma che sembrava fosse stato archiviato dopo il 4 marzo, rinverdito da un big come Dario Franceschini: l’alleanza con i 5 Stelle.
Nel Parlamento riunito stancamente sotto la canicola di luglio, ormai convocato per due giorni a settimana con ordini del giorno blindati, non si parla d’altro nel gruppo Pd.
Anche nei giorni caldi del Russiagate i dem hanno parlato praticamente solo di questo, con le fila renziane ricompattate contro l’ipotesi adombrata da uno dei dirigenti più ascoltati dal segretario Zingaretti: una levata di scudi contro un’ipotesi che lo stesso Matteo Renzi ha sempre considerato il punto di non ritorno per il Pd, seguita da un silenzio quasi assordante da parte degli zingarettiani.
Quasi un’ordine di scuderia: tutti zitti, tranne qualche stringata dichiarazione di Roberto Morassut e Luigi Zanda. Gli altri, tutti dietro al segretario che ha sparigliato le carte, ribadendo come l’alleanza non sia nelle immediate intenzioni del partito e rileggendo in questo senso l’intervista di Franceschini.
La linea non è chiara, tanto che addirittura il sindaco di Milano, Beppe Sala, chiede pacatamente un chiarimento: «Molti degli elettori dei 5 Stelle sono ex elettori nostri o vicini alle nostre posizioni. Però adesso è tutto teorico: chissà quando si andrà a votare, per cui l’unica cosa è che sarebbe importante che uscisse una voce sola dal Pd».
Renzi contro Zingaretti I parlamentari sono disorientati e la domanda è la stessa di Sala: quanto durerà ancora questa legislatura. E, intorno alla risposta, si coagulano due diverse riflessioni: da un lato i renziani, che al Senato sono sempre più compatti intorno all’ex leader nonostante lui ostenti riluttanza a riprendere il timone; dall’altro gli zingarettiani, troppo pochi nei gruppi parlamentari ma comunque forti del silenzio del segretario, in attesa ( anche se un po’ timorosa, visti i sondaggi di Youtrend che danno il Pd in discesa di 1,6 punti) di un voto che significherà anche un cambio della guardia.
L’ultimo strappo lacerante tra segreteria e minoranza si è consumato proprio sul Russiagate: prima Renzi e Boschi pronti a chiedere la sfiducia di Salvini, poi lo stop di Zingaretti che la definisce un modo per ricompattare l’esecutivo; infine Renzi che si iscrive per parlare durante l’interrogazione del premier Conte, poi il gruppo che di fatto gli impedisce di parlare, perchè ha annunciato l’iniziativa prima su Facebook.
Sgarbi che si sommano ad altri minori, come l’allontanamento di Davide Faraone da segretario del Pd siciliano, e che stanno alzando sempre di più la temperatura intorno all’ex segretario. Tanto che nei corridoi del Transatlantico si sente sempre più spesso parlare di scissione: le voci si erano fermate, ora dopo l’affronto al capo e soprattutto lo sdoganamento dell’ipotesi alleanza coi 5 Stelle - sono riprese con forza.
«Ma se uscissimo dal Pd per fare un nuovo movimento bisognerebbe guardare a Forza Italia», ragiona un deputato, incerto sullo stato di salute del partito del Cav e che ne conosce i limiti ma anche le pulsioni e sa bene che «Molti di loro sono pronti ad andare con Salvini».
«Il problema del Pd è che manca una linea», dice un altro, particolarmente critico nei confronti della segreteria: non parla, non interviene sui temi di giornata, si limita a chiedere l’unità del partito e a portare in giro Zingaretti come una madonna pellegrina per i quattro angoli d’Italia. Anzi, l’unica linea sembra quella di immaginare, come argine al sovranismo leghista, un’alleanza “valoriale” - parole di Franceschini coi 5 Stelle. «Gli stessi che ci hanno definito il partito di Bibiano», commenta caustico un parlamentare.
La Costituente delle idee E a poco serve l’iniziativa di Zingaretti, che ieri ha riunito i segretari regionali per lanciare la sua Costituente delle idee e che oggi vorrebbe proseguire in questa direzione la rotta della segreteria, dopo che i gruppi parlamentari di Camera e Senato hanno depositato la mozione di sfiducia individuale contro il ministro Salvini.
A frapporsi, il sempre vulcanico Carlo Calenda che butta il cuore oltre l’ostacolo e lancia sui social una raccolta firme in favore del suo ordine del giorno per la direzione: “Partito democratico e Movimento 5 stelle sono e rimarranno incompatibili” e ” tre priorità evidenti su cui costruire immediatamente un piano per l’Italia: scuola e formazione, sanità e investimenti”. In poche ore ha raccolto 17mila firme e chiosa: «Dopo lo spettacolo indegno che abbiamo dato con la polemica sull’intervento al Senato o si cambia subito con il concorso di tutti o io dalla direzione esco. Non ho intenzione di rimanere associato a un asilo di rancorosi che si fanno i dispetti mentre l’Italia è allo sbando».
Se Zingaretti immaginava una tranquilla direzione pre- feriale, i presupposti vanno in un’altra direzione.