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Se uno dovesse inventarsi un teorema giudiziario su una trattativa Stato-mafia odierna, ci sono tutti gli ingredienti giusti per creare suggestioni. Il 7 marzo scoppiano le rivolte nelle carceri italiane, alcune davvero devastanti con tanto di evasione spettacolare e lasciando una scia di 13 detenuti morti, la maggior parte stranieri e con problemi di tossicodipendenza. Dietro le rivolte – come ha detto recentemente il sociologo Nando Dalla Chiesa e adombrato anche dal presidente della commissione antimafia Nicola Morra – ci sarebbe stata una regia mafiosa per fare pressione sul governo per ottenere le scarcerazioni dei boss mafiosi al 41 bis. Detto, fatto. Spunta la circolare del Dap che raccomanda alle direzioni del carcere di segnalare ai giudici tutti i detenuti che presentano patologie letali in caso di Covid 19. Esce un articolo de L’Espresso nel quale si denuncia che la circolare avrebbe fatto un favore ai boss al 41 bis, i quali ne avrebbero approfittato per chiedere la detenzione domiciliare. Si crea mistero, inquietudine e aleggia nell’aria il famoso “terzo livello”. Il giorno dopo l’allarme viene scarcerato il boss Francesco Bonura per gravi malattie e messo in detenzione domiciliare. Spunta fuori la lista di centinaia di boss che avrebbero o potrebbero beneficiare della scarcerazione. Poco importa che di un centinaio di nomi, solo tre del 41 bis sono coloro che hanno usufruito della detenzione domiciliare. Ma il dado è tratto. La presunta nuova trattativa avrebbe quindi dato i suoi frutti. Lo stesso Nino Di Matteo – membro togato del Csm e tra coloro che imbastirono il famoso processo sulla presunta trattativa Stato- mafia – all’indomani delle scarcerazioni si era espresso così: «Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte. E sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato- mafia». Gli ingredienti ci sono tutti. Ma durante l’ultima trasmissione “Non è l’Arena” di Massimo Giletti se n’è aggiunto un altro che ha mandato in tilt i seguaci delle “agende rosse”, tutta una certa antimafia che crede alle “entità” e alle regie occulte del fantomatico (Giovanni Falcone non a caso stigmatizzava questa fandonia) “terzo livello” e soprattutto il Movimento 5Stelle, che attualmente è al governo e che del teorema trattativa ne ha fatto un caposaldo della sua narrazione politica. Di Matteo è intervenuto durante la trasmissione affermando che nel 2018 il guardasigilli Alfonso Bonafede gli aveva offerto di dirigere il Dap, offerta che sarebbe poi venuta meno, dopo la reazione di alcuni boss detenuti al 41 bis, che in alcune intercettazioni si sarebbero detti preoccupati per la sua nomina al Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria. Ovviamente Di Matteo ha raccontato solo i fatti che sarebbero accaduti, non aggiungendo altro né dando alcuna interpretazione. Ma chi ha ascoltato ha avuto inevitabilmente la percezione che Bonafede stesso avrebbe avuto paura delle pressioni mafiose. Una sorta di minaccia psicologica a un corpo politico dello Stato (reato contestato agli ex Ros per la presunta trattativa). Il ministro della Giustizia ha replicato smentendo quella ricostruzione. Ricorda qualcosa? Ma certo. La stessa narrazione suggestiva e priva di fondamento sulla presunta trattativa Stato-mafia. Anche in quel caso è stato omesso un elemento non trascurabile: viviamo in uno Stato di Diritto e soprattutto c’è la magistratura di sorveglianza che opera secondo legge e in maniera del tutto indipendente. Pensare che le scarcerazioni siano frutto di accordi con la mafia che avrebbe fatto pressione tramite le rivolte, è frutto di superficialità e mancanza di conoscenza. Le rivolte sono provocate dal disagio che imperversa da sempre nelle nostre carceri e l’emergenza Coronavirus ha messo a nudo tutte le fragilità. I mafiosi sono per l’ordine all’interno delle carceri. La ribellione non è nel loro Dna. Le scarcerazioni non hanno ovviamente nulla a che fare nemmeno con quella circolare del Dap, che è un atto amministrativo doveroso in un Paese civile. I magistrati di sorveglianza hanno fatto il loro dovere. Nessun pericoloso boss sanguinario è stato liberato. Nessuna regia occulta. Analoga vicenda è accaduta nel 1993 e c’entra sempre il 41 bis. L’unica prova dell’avvenuta trattativa Stato- mafia è il mancato rinnovo del 41 bis a centinaia di detenuti. Infatti secondo le motivazioni della sentenza principale sulla presunta trattativa, per la quale sono stati condannati in primo grado gli ex Ros e Marcello Dell’Utri per aver veicolato le minacce ai governi che si sono succeduti tra il ’92 e il ’ 94, non c’è ombra di dubbio. L’allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, si adoperò per rimuovere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato, ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti (con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. Fu lì, secondo le motivazioni di condanna, che si insinuarono una serie di iniziative per favorire la mafia e quindi la trattativa.Il 41 bis sarebbe stato il fulcro di tali iniziative. In realtà c’è stata una sentenza della Corte costituzionale scaturita grazie al ricorso – udite udite – dei magistrati di sorveglianza. Tale sentenza ha invitato il governo a valutare caso per caso il rinnovo o meno del 41 bis (all’epoca il rinnovo avveniva automaticamente e indistintamente per tutti). Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dal ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, il quale non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della trattativa, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente” del ’93.I giudici che hanno assolto l’ex ministro Calogero Mannino, che nel processo trattativa ha scelto il rito abbreviato, hanno sottolineato come dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che «né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro». Il terzo fattore che piccona la prova dell’avvenuta trattativa riguarda la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno del carcere «a tratti – scrivono i giudici -, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità». Una distensione già avviata, tra l’altro, con il precedente capo del Dap Niccolò Amato con la sua nota del marzo 1993. Una distensione, sottolineano i giudici, «che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione sociale essi siano». Ed ecco qua. Si parla di tutela della dignità dei detenuti, Costituzione, Stato di Diritto. In soldoni nessuna manovra oscura, come oggi non c’è stata alcuna regia occulta dietro la concessione della detenzione domiciliare (di cui tre del 41 bis, non centinaia come hanno fatto un po’ credere) odierne. Chissà se il ministro Bonafede, che adesso è anche capodelegazione del M5S nel governo, si sia ora accorto di quanto è facile cadere nell’equivoco. Il teorema trattativa è diventata una spada di Damocle (o addirittura uno strumento di potere) che condiziona il governo nel fare qualsiasi scelta politica. Soprattutto nel campo giudiziario e penitenziario.