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Nel giardino del Centro di accoglienza straordinaria ( Csa) “Lo Scoiattolo” c’è un metro di neve. Siamo a Pescasseroli e non è strano, ma molti richiedenti asilo, ospiti da alcuni mesi, provano la stessa sorpresa di Ciaula, il personaggio di Pirandello che vive nella miniera e un giorno vede, per la prima volta, la luna.
Sono 40, hanno in media 20 anni. La Società Gestione Orizzonti, a capo di una decina di strutture, ha preso in affitto un albergo, dove i giovani dormono spartendosi 15 stanze. I ragazzi studiano italiano, fanno un corso di arte, di canto, quattro vanno a scuola per conseguire la licenza media, altri 30 seguono il corso di alfabetizzazione del Centro Provinciale. Vengono tutti dall’Africa subsahariana. Alcuni sono fuggiti dalle guerre, altri da persecuzioni di genere. Hanno poca voglia di raccontare le loro vicende quando, insieme a Dacia Maraini ( che abita accanto a loro e ne ha scritto sul Corriere della Sera) chiediamo: «Perché avete lasciato il vostro Paese?». Rachid spiega in arabo: «Vengo da Mogadiscio, dalla Somalia, dove da quasi 26 anni c’è la guerra. Lì ho famiglia: mia moglie, quattro figli. Ci sono gli Al- Shabaab che stanno seminando morte». È una delle innumerevoli storie di dolore che sbarcano sulle nostre coste.
A tradurre le parole di Rachid è Hala, una volontaria di MamAfrica, comitato spontaneo – ora confluito nell’associazione Terra di Domani – creato da alcuni pescasserolesi per sostenere i ragazzi del CAS. Anche Hala sa cosa sia la guerra, perché è siriana, oltre che italiana. Da 10 anni abita a Pescasseroli con suo marito. Ha un nipote in Siria e tenta invano di farlo arrivare in Italia per vie legali: «Vorrei davvero evitargli i barconi». Quando ha visto questi ragazzi ha sentito subito il desiderio di dare una mano: «Spesso passano al negozio, anche solo per chiacchierare in arabo, per chiedermi una sigaretta, qualcosa per il mal di pancia. Gli offro la pizza o un caffè, così non spendono tutto il pocket money ( 75 euro al mese ndr). Quando litigano tra di loro, noi di MamAfrica li facciamo ragionare, e gli ricordiamo anche quali siano le regole italiane, l’importanza di imparare la lingua».
All’inizio la città ha reagito con un certo sospetto, ma poi è stata accogliente, spiega Hala, che è rimasta meravigliata per la bella risposta dei pescasserolesi: «Spero si aprano ancora di più, ma devo dire che sono stati tutti disponibili, specialmente quando è arrivato il freddo e abbiamo organizzato una raccolta di abiti pesanti».
Nell’associazione c’è anche Francesco, un artigiano del cuoio, uno dei membri più attivi, che sta cercando una sede per l’Associazione e spera che il Comune lo aiuti. Lui ha deciso di fare un contratto di apprendistato a uno dei ragazzi, che dopo 60 giorni dall’arrivo in Italia pos- sono lavorare.
La consigliera comunale Francesca Grassi all’inizio è rimasta disorientata dall’apertura del Centro, però poi, insieme agli altri amministratori, ha voluto trasmettere serenità ai cittadini. Crede che la conoscenza reciproca tra locali e migranti stia dando i suoi frutti. Gli ospiti del Centro hanno offerto gratuitamente la loro manodopera per tenere pulito il paese e fare piccoli lavori di manutenzione: «Avrei voluto che questa convenzione con il Co-a mune si evolvesse – spiega la Grassi – che prendesse anche aspetti di formazione per i ragazzi, ma per ora le risorse a disposizione non ce lo permettono. Credo sia stata comunque una maniera di farli integrare meglio. Tra l’altro, so che Blessing, nigeriana, unica ragazza nel Centro, ha cantato insieme al Coro nella chiesa di Pescasseroli». Due dei richiedenti, Christian e Ousmane, hanno partecipato invece al presepio vivente.
Una figura centrale per i ragazzi è Fabiola, la direttrice del Centro, giovanissima psicologa, che ammette: «Con loro sto imparando tanto, forse più di quello che potrei apprendere in un contesto clinico canonico. Certo, bisogna condividere anche il loro dolore, come quando ti mostrano una foto della figlia e si domandano come stia crescendo. Sono la direttrice, ma anche un po’ la loro confidente, i racconti delle torture in Libia o i timori per il loro futuro mi toccano profondamente». È naturale, non mancano i problemi. Tutti i ragazzi vorrebbero un lavoretto retribuito, per poter mandare soldi alle famiglie, poi c’è la nostalgia, per alcuni il desiderio di una partner, la voglia di uscire la sera, cosa che la legge limita. Spesso, come in tutta Italia, le domande di protezione vengono rigettate. Nel centro sono passati 99 ragazzi, ma considerati trasferimenti e allontanamenti volontari, Fabiola può conoscere il destino solo di una cinquantina di loro. E tra questi, per ora, sette soltanto hanno ottenuto protezione umanitaria o internazionale. Per gli altri bisogna fare ricorso al Tribunale ordinario, poi, se necessario, anche in appello, e così si resta sospesi, magari per due anni, in un limbo che non giova a nessuno.