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Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione degli autori, un estratto dall’articolo di Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito apparso sull’ultimo numero di Questione giustizia con il titolo “Quale futuro per il garantismo? Riflessioni su processo penale e prescrizione”. Questione giustizia è la rivista on line di Magistratura democratica, di cui Guglielmi e De Vito sono, rispettivamente, segretaria generale e presidente.
È sufficiente allineare gli interventi proposti per riconoscere nella riforma i caratteri propri della torsione regressiva che il diritto penale subisce sotto la spinta del rigorismo repressivo: inasprimenti sanzionatori; traghettamento dei reati contro la Pubblica Amministrazione nel catalogo delle fattispecie ostative ( art. 4- bis dell’ordinamento penitenziario) alla concessione delle misure alternative; previsione di pene accessorie perpetue anche nell’ipotesi in cui la pena principale non superi gli anni due di reclusione; sopravvivenza degli effetti penali alla riabilitazione; agente sotto copertura dalle incerte attribuzioni.
Si tratta, ci sembra, di un lessico inconfondibile, ben reso dalle parole di Vittorio Manes in sede di audizione dinanzi alla Commissione giustizia della Camera dei deputati il 12 novembre scorso: «Un utilizzo del diritto penale improprio e pericoloso, non più come strumento di accertamento di fatti secondo quell’iter di razionalità che è il processo penale, ma come strumento di lotta a fenomeni sociali che si assumono sistemici, se non persino come strumento di vendetta sociale».
È il quadro, peraltro, che emerge anche dai recenti approdi in materia di riforma dell’ordinamento penitenziario ( decreti legislativi 123 e 124 del 2 ottobre 2018), che hanno stravolto la fisionomia dell’originaria legge delega e dei lavori della Commissione Giostra in nome di una certezza della pena declinata solo come certezza del carcere, con contestuale indebolimento della discrezionalità della autorità giudiziaria. Del resto, il rifiuto della discrezionalità – dunque anche contro il valore epistemologico del processo, della sua matrice accusatoria e degli apporti di sapere delle parti – è un fil rouge che lega tutta l’attuale grammatica politico- criminale, come dimostra anche la novella in materia di legittima difesa.
È di questo quadro complessivo che bisogna tener conto, a nostro avviso, per avere la corretta misura dell’emendamento in punto di prescrizione, trattandosi di una proposta sorretta dalla medesima impostazione volta al mutamento della fisionomia costituzionale del diritto e del processo penale e da una logica non accettabile di scambio tra mera efficienza del processo e garanzie.
DATI DI FATTO
C’è da auspicare, al contrario, che un confronto con magistratura, avvocatura e accademia – non pregiudicato da soluzioni preconfezionate – riesca a immaginare risposte che assicurino funzionalità al processo e, al contempo, la piena salvaguardia delle garanzie costituzionali, a partire dai principi di non colpevolezza e di finalismo rieducativo della pena inscritti nell’art. 27 della Carta.
Se non incanalato su questo binario, un intervento sulla prescrizione rischia soltanto di aggravare la posizione dell’imputato senza aggiungere nulla alla tutela delle persone offese.
Ci rendiamo conto che questa posizione non è da tutti condivisa, ma sentiamo il bisogno di riaffermarla alla luce di una seria analisi dei dati a disposizione. Valutazioni e proposte, infatti, non possono che partire da elementi di fatto certi, che constatiamo però essere i grandi assenti in questo dibattito pubblico. Il primo fatto riguarda il numero delle prescrizioni. Dalle ultime statistiche del Ministero della giustizia emerge che, nel corso di dieci anni, le prescrizioni si sono ridotte di circa il 40%, passando dagli oltre 213mila procedimenti estinti nel 2004 ai circa 132mila del 2014. I processi che si concludono con la prescrizione del reato, dunque, rappresentano il 9,48% di quelli definiti. Numero che sembra essersi ulteriormente abbassato nel 2017 posto che, in base agli ultimi rilevamenti, i processi colpiti dal decorso del tempo sarebbero 125mila. Lo stesso annuario statistico 2017 della Cassazione penale conferma questa tendenza e dà atto che nel 2017 i procedimenti definiti con prescrizione del reato, nel giudizio di legittimità, sono stati 670, pari all’ 1,2% del totale, con valori in calo rispetto al 2016.
Questi dati sembrano, prima di tutto, sconfessare la vulgata che vede nella prescrizione il buco nero nel quale è destinata a precipitare tutta la giustizia penale ( tesi, questa, diffusa anche tra i magistrati), dipinge i giudici come corporazione lassista di fronte ai carichi di lavoro e l’avvocatura come raggruppamento di chicaneur che subordinano qualsiasi scelta processuale alla strategia dilatoria. La lotteria della prescrizione colpisce troppo, ma colpisce meno che in passato.
Fatta tale premessa, non è ininfluente rilevare – sempre ai fini del giudizio complessivo sulla riforma – che, benché nel 2017 siano aumentate quelle pronunciate in appello, il 62% delle prescrizioni matura ancora prima dell’approdo al dibattimento, durante la fase delle indagini preliminari e, comunque, prima della sentenza di primo grado.
Esemplare, in questo senso, è l’epilogo della vicenda Eternit, spesso utilizzata per rappresentare l’effetto sfigurante dalla prescrizione. È sufficiente leggere con attenzione il dispositivo della celebre sentenza della Corte di cassazione ( Sez. I, 19 novembre 2012, n. 7941): «Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confron- ti dell’imputato relativamente al reato di cui all’art. 434 cod. pen. di cui al capo B) della rubrica e alle conseguenti statuizioni di condanna nei confronti del predetto imputato e dei responsabili civili, perché il reato è estinto per prescrizione maturata anteriormente alla sentenza di primo grado».
Il caso Eternit, dunque, non sembra calzante per giustificare e avallare l’intervento normativo proposto. Al contrario, appare evidente che l’invocato blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado non sarebbe in grado di proteggere le vittime da questi esiti processuali, lasciandola esposta a una doppia ingiustizia: nessuna tutela morale correlata alla condanna penale dell’autore e nessuna tutela civilistica, dal momento che l’estinzione del reato prima della sentenza di primo grado travolge anche le statuizioni risarcitorie. Altro esempio – in tutt’altra direzione – è quello attinente alla tragedia accaduta a Viareggio il 29 giugno 2009, quando, in occasione di un sinistro ferroviario, persero la vita 32 persone. Il Tribunale di Lucca, con sentenza del 31 gennaio 2017, ha riconosciuto la responsabilità di ventitrè imputati per i delitti di disastro ferroviario, incendio colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni personali colpose gravi. Come noto, è iniziato da poco il processo di appello e la stampa pone correttamente l’attenzione sul pericolo di prescrizione, che in questo caso travolgerebbe alcuni reati ( verosimilmente l’incendio colposo e le lesioni) nel corso delle fasi successive al deposito della sentenza di primo grado.
Se in questo caso la prescrizione rischia effettivamente di azzerare l’aspetto legato al ristoro morale che la condanna penale produce nelle persone offese ( in questa prospettiva vittimologica degli effetti della condanna penale si pone la Corte Edu, a partire dalla sentenza 1° luglio 2003 Finucane c. Regno Unito), non occorre sottovalutare che l’approvazione di un emendamento come quello proposto dal governo produrrebbe un vulnus di non poco momento. È fin troppo noto, infatti, che ai sensi dell’art. 75, comma 3, cpp, l’azione proposta in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado determina la sospensione del processo civile fino al momento in cui la pronuncia non è più soggetta a impugnazione. In sostanza, sino alla irrevocabilità della sentenza penale – che, in ragione della endemica lentezza del processo penale, può giungere a molti anni di distanza dalla sentenza di primo grado – la persona offesa, costituita parte civile, finirebbe in uno stato di paralisi, con il processo civile sospeso e con esposizione alla possibilità di un esito assolutorio che potrebbe produrre persino effetti di giudicato nel giudizio civile. Statistiche e casistica giudiziaria inducono a una riflessione che sembra importante. L’interruzione definitiva della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, intesa come misura monadica e irrelata da un serio intervento sui tempi del processo penale, oltre a ledere gravemente l’imputato sotto il profilo del diritto a un equo processo, lascia irrisolto il problema della prescrizione intervenuta nel corso delle indagini e non appare in grado di tutelare appieno la persona offesa.
ABOLIZIONE DELLA PRESCRIZIONE E PROCESSO PIÙ VELOCE?
Secondo un’opinione diffusa anche nella magistratura, l’intervento abolitivo della prescrizione dopo il primo grado determinerebbe una sorta di effetto trickle- down, per il quale diminuirebbero le impugnazioni, verrebbe incrementato l’accesso ai riti alternativi e si ridurrebbe il numero dei dibattimenti celebrati.(...) Bisogna dire, rimanendo sul terreno della prescrizione, che l’impostazione che abbiamo definito ( mutuando il gergo economico) trickle- down – vale a dire quella che mira a conseguire gli effetti di riduzione dei tempi del processo attraverso l’effetto “sgocciolamento” dell’abolizione della prescrizione – sembra muovere dal presupposto che la prescrizione rappresenti la prima ed a volte l’unica opzione difensiva delle difese. È un presupposto, a nostro avviso, non veritiero e culturalmente non accettabile. Non vi è dubbio che la prescrizione, in questo sistema di processo penale lento e ingigantito dalla spinta alla criminalizzazione di ogni fenomeno di disvalore sociale, costituisca un’alternativa percorribile per le difese. Si tratta però, oltre che di un’alternativa legittima, di un’opzione che non caratterizza le scelte difensive in merito alle scelte di rito, di impugnazione, di strategia processuale. Scelte che, viceversa, sono caratterizzate dai fattori più diversi: ricerca dell’assoluzione, incremento o limitazione del materiale probatorio, riduzioni di pena, riconoscimento di circostanze, allontanamento o avvicinamento del giudicato e del momento dell’esecuzione. Non è realistico far assurgere la possibilità prescrizione – resa comunque legittima dal sistema – a regola di esperienza delle condotte difensive.
Proprio per questo riteniamo che l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado, non accompagnata da interventi in grado di incidere sulla ragionevole durata del processo, non produrrà accelerazioni della dinamica del processo, che è influenzata da altri elementi sui quali davvero avvocatura e magistratura dovrebbero ragionare insieme.
I TEMPI REALI DELLA PRESCRIZIONE…
Se quello che abbiamo detto è vero, deve osservarsi che è ancora più evidente dopo l’entrata in vigore della legge 103/ 2017.
Non si può dimenticare – anche questo dato è scomparso dal dibattito politico interessato all’approvazione della modifica normativa – che la prescrizione ha subito un’incisiva rimodulazione con la legge Orlando. In particolare, la modifica dell’art. 159, comma 2, nn. 1) e 2) prescrive che la prescrizione rimane sospesa per complessivi tre anni dopo la sentenza di primo grado.
Va inoltre precisato che, tra il 2008 e il 2016, i termini di prescrizione sono stati raddoppiati per tutta una serie di reati che vale la pena elencare: frode in processo penale e depistaggio aggravati; delitti colposi di danno; omicidio colposo in violazione di norme sulla sicurezza sul lavoro o nell’esercizio abusivo di una professione; omicidio stradale; delitti contro l’ambiente; maltrattamenti contro familiari e conviventi; delitti di tratta di persone, di sfruttamento sessuale dei minori e di caporalato; delitti di violenza sessuale; delitti di cui all’art. 51 commi 3- bis e 3- quater del codice di rito. Ancora, in base alla formulazione dell’art. 161 cp, modificato sul punto dalla legge n. 103/ 2017, l’interruzione della prescrizione comporta un aumento del tempo necessario a prescrivere pari alla metà per alcuni dei più gravi reati commessi da pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione.
Qualche esempio può rendere la dimensione del decorso tempo necessario a far maturare l’esito prescrittivo all’esito delle complessive riforme.
Una rapina aggravata si prescriverà nel termine massimo ( sempre che l’imputato non sia recidivo reiterato o delinquente abituale) di ventotto anni, una resistenza a pubblico ufficiale nel termine di dieci anni e sei mesi; una corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio si prescriverà in diciotto anni. (...)
… E I REALI TERRENI DI CONFRONTO
Siamo perfettamente consapevoli che alla prescrizione non possa essere affidato il compito di presidiare la ragionevole durata del processo. Non è in questa sede che va trovata la garanzia contro un processo di durata irragionevole. Lo ha ribadito con parole limpide uno studioso del calibro di Domenico Pulitanò. È una lezione che conosciamo bene e che ci convince.
Non possiamo trascurare, tuttavia, che una delle ragioni sottese alla prescrizione è correlata al diritto a non essere giudicati a distanza di molti anni dal fatto. Prendiamo in prestito le parole di Francesco Viganò, che, in un intervento nell’ambito di un convegno promosso nel 2012 anche da Magistratura democratica, ha rilevato che «il principale interesse sostanziale tutelato dalla vigente disciplina della prescrizione deve essere ravvisato, nell’attuale contesto ordinamentale, in quello – dell’indagato e poi dell’imputato – a non vedersi esposti indefinitamente, in uno scenario di kafkiana memoria, alla spada di Damocle delle indagini, del processo e della sanzione penale».
(...) Ad oggi l’estinzione del processo per decorso del tempo agisce come «agente terapeutico e patogeno al tempo stesso». Eliminare il farmaco senza cura della malattia, per rimanere nella metafora, rischia però di aggravare le condizioni del malato. E siamo certi che questo aggravamento si verificherà se andranno in porto riforme gravi e in controtendenza rispetto a quello che si vorrebbe garantire con l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado. Prima tra tutte, quella volta a inserire il divieto di accedere al rito abbreviato in ordine ai reati puniti con la pena dell’ergastolo. (...) Cosa fare per curare realmente la giustizia penale? Riteniamo che, di pari passo a un intervento sulla prescrizione sostanziale del reato, debba affiancarsi un intervento sulla prescrizione processuale dell’azione penale. È qui, su questo terreno, che si può e si deve trovare un punto di equilibrio tra efficienza del processo e diritto dell’imputato ( ma anche della vittima) a tempi ragionevoli. In questa prospettiva la prescrizione del reato dovrebbe interrompersi definitivamente una volta che lo Stato ha dimostrato di voler perseguire l’autore di un fatto – le varianti su come possa essere individuato questo momento sono molteplici – per poi lasciare il passo a una prescrizione processuale che scandisca i termini di durata ragionevole di ogni fase di giudizio, analogamente a quanto avviene in altri ordinamenti.
Questo ci sembra l’unico modo – con i dovuti contemperamenti in caso di mancato rispetto dei termini – per consentire di tenere assieme efficienza del processo e diritti dell’imputato.(...)
UN COMPROMESSO NON ACCETTABILE
Accettare lo scambio tra abolizione della prescrizione e una incerta riforma del processo, oltre a far correre il serio pericolo di veder tramontare la possibilità di un confronto ampio su un nuovo processo penale, potrebbe determinare la chiusura di un’altra partita fondamentale, mai seriamente aperta: quella della depenalizzazione.
Una seria prospettiva di depenalizzazione dovrebbe affrontare una volta per tutte la materia degli stupefacenti, sulla quale anche negli Stati Uniti – Paese esportatore della strategia di criminalizzazione nella war on drugs – ci si sta interrogando con riferimento ai reati di droga non violenti. Non sarà in questo contesto, troppo condizionato dalla scelta di criminalizzazione in chiave di consenso elettorale, che potranno realizzarsi le condizioni per trasformare in legge le scelte di fuoriuscita dal penale. È però indispensabile creare le condizioni di una alleanza culturale in grado di riportare il confronto sul terreno dell’impegno per il diritto penale minimo e per pene in grado di assolvere agli obiettivi costituzionali. (...) Per questo crediamo anche noi che al momento la questione fondamentale sia quella di fare luce tra le «pesanti nubi che si addensano attorno al sistema penale del nostro Paese».