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«Rispettare la sentenza? Non avrebbe senso ipotizzare il contrario. La pronuncia della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo è il punto di partenza. Ma di fronte a un intervento su norme di tale delicatezza è dovere del legislatore provvedere a ogni eventuale ulteriore modifica che possa completare il quadro definito dalla Consulta». Anna Macina, capogrupppo 5 Stelle nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio, è la voce con cui il Movimento prova a superare l’inquietudine per la parziale bocciatura dell’articolo 4 bis, arrivata lo scorso 23 ottobre. Pochi minuti dopo la decisione con cui i giudici costituzionali hanno di fatto reso possibile concedere permessi anche agli ergastolani per mafia e terrorismo, lo stesso ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha prefigurato un «impegno del Parlamento sulla questione». Sul Blog dei 5 Stelle è apparsa una nota dello stesso tenore. Ad anticipare le possibili mosse della maggioranza è dunque la deputata eletta a Brindisi che tiene a definirsi «avvocato convinto della differenza tra chi dice di fare e chi sa di essere avvocato».
La sentenza ha aperto una strada e non sono ipotizzabili retromarce, onorevole Macina.
La sentenza va rispettata. All’interno dello spettro definito dal giudice delle leggi è comunque possibile un intervento del legislatore.
Quale potrebbe essere?
Partirei da due presupposti. Prima di tutto il rischio di un travisamento, sul piano mediatico, del dato affermato da Palazzo della Consulta: non ci sarà alcuna automatica uscita in massa degli ergastolani, in particolare di condannati per mafia, piuttosto viene attribuito al giudice di sorveglianza un potere discrezionale nel valutare caso per caso, ma sempre all’interno di una cornice ben precisa. Il secondo punto di partenza deve essere, a mio giudizio, proprio nel fatto che non è ragionevole scaricare sul singolo magistrato la responsabilità di decisioni così pesanti nei confronti di condannati per 416 bis o per terrorismo.
D’altra parte nella necessità di una concreta, specifica valutazione del giudice è proprio il cuore della sentenza.
Va però ricordato anche che se un giudice è lasciato totalmente solo nell’assumere decisioni su mafiosi o terroristi si rischia di condannarlo. Ecco perché noi dobbiamo puntellare tutti quei parametri che poi diventano gli strumenti concreti di valutazione per il giudice di sorveglianza.
Non sarebbe semplice approvare una legge che integri l’ordinamento penitenziario nella parte già vagliata dalla Corte.
Ma intanto si può partire da uno strumento sottovalutato, previsto all’articolo 108 del regolamento di Montecitorio: la possibilità che la commissione Affari costituzionali, di cui faccio parte, istruisca un approfondimento sulle sentenze della Consulta. Si può nominare un relatore e approvare un documento che indichi possibili ulteriori linee di intervento.
Uno strumento per comprendere se e quali misure possano completare il quadro normativo, nello spazio lasciato al legislatore?
Parliamo di una prerogativa importante riconosciuta alla Prima commissione. Tanto che quel documento viene poi trasmesso non solo ai presidenti di entrambe le Camere ma anche ai vertici della stessa Corte costituzionale, del governo e ai ministri competenti. Credo che il caso delicatissimo dell’ergastolo ostativo reclami proprio simile approfondimento.
Ma sul rispetto della sentenza non ci sono equivoci, giusto?
Ci mancherebbe che la Camera possa contrastare una pronuncia della Corte.
Come si regola altrimenti da quanto già previsto dopo la sentenza il caso di un ergastolano che non collabori per timore di rappresaglie su persone a lui care ma che non potrebbero essere incluse nel programma di protezione?
Ecco, è proprio l’ipotesi che potrebbe aver motivato la decisione della Consulta, anche se per comprenderlo dovremo leggere le motivazioni. Ma intanto direi che si tratta di ipotesi limitate, residuali e comunque non riferibili a capimafia, per intenderci. Credo comunque che la risposta più adeguata potrebbe consistere nel fissare criteri ancora più rigorosi per la definizione dei pareri che devono precedere la decisione del giudice, a partire da quelli del procuratore distrettuale e della Dna, magari prevedendoli come vincolanti.
Sono atti già prodotti secondo standard molto rigorosi.
Possiamo rafforzare la necessità di verificare concretamente sul territorio la sussistenza delle condizioni indicate dal condannato. Sia nel senso di accertare la scomparsa di legami anche indiretti con l’organizzazione, sia con la verifica, attraverso i presidi di legalità, dell’effettiva esistenza di rischi quali quelli paventati. Ma ripeto, parliamo di casi limite. E comunque in circostanze simili un certo tipo di permessi dovrebbe essere considerato assai pericoloso.
Quale tipologia?
Se il detenuto esce dal carcere per essere presente a un matrimonio, andrebbe considerato in maniera ancora più scrupolosa il rischio che possa riallacciare relazioni criminali.
Gli spazi per il legislatore potrebbero rivelarsi davvero minimi.
In gioco c’è il bilanciamento tra il fine rieducativo della pena e l’interesse pubblico a non spuntare le armi della lotta al crimine. Proprio per approfondire tale equilibrio credo sarebbe utile che la prima commissione ascoltasse anche i costituzionalisti.
Il punto chiave è ripristinare l’autonoma valutazione del giudice, liberarla dagli automatismi: il Movimento può essere disponibile a ragionarci anche al di là dell’ergastolo?
A mio giudizio sarebbe utile che l'automatismo fosse in qualche modo mantenuto: protegge il giudice nel senso che lo lascia meno esposto alle conseguenze delle sue valutazioni. Il fine rieducativo della pena va preservato senza compromettere strumenti adottati dopo la stragi di mafia. Chiederemo ai costituzionalisti di approfondire insieme anche questo aspetto.