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Tutto come previsto. O quasi. Nella tarda serata di ieri il Parlamento britannico ha infatti votato contro il “no deal”. Dunque Londra ferma l’hard Brexit, ovvero l’uscita dall’Ue entro il 29 marzo non negoziata: lo scenario di gran lunga più temuto sia da Bruxelles che da Londra. Eppure qualcosa non è andato come previsto da Theresa May.
Il parlamento ha infatti dato l’ok all’emendamento Spelman che respinge l’ipotesi di un’uscita senza accordo dalla Ue. Il testo del governo, pur escludendo un divorzio dalla Ue senza accordo il 29 marzo, lasciava aperta l’opzione “no deal”, nel caso che Londra e Bruxelles non riescano a ratificare un accordo”. L’emendamento Spelman, approvato con 312 voti contro 308, cancella del tutto l’ipotesi di un’uscita “disordinata” dall’Unione europea.
Il no di ieri ha comunque aperto la strada a una nuova votazione, prevista per le 18 di oggi, in cui si deciderà di estendere l’articolo 50 del Trattato di Lisbona in modo che la premier May possa contare su un periodo ti tempo più lungo per trattare con Bruxelles. Se la maggioranza si esprimerà a favore della proroga si aprono diversi scenari.
Il primo: la Brexit viene rimandata di almeno due mesi, ma il rinvio è vincolato all’approvazione unanime dei 27 Paesi restanti del blocco, che si esprimeranno a riguardo nel summit Ue del 21- 22 marzo. L’ulteriore tempo ottenuto dovrebbe essere utilizzato per rinegoziare un nuovo patto con Bruxelles.
Il secondo: May potrebbe provare a ripresentare al Parlamento il suo accordo, sperando prevalga la paura del no deal. Difficile, però, che le riesca l’impresa, anche se i deputati Brexiteer - che finora non le hanno dato il voto vogliono evitare a tutti i costi ritardi nella data di divorzio da Bruxelles, fissata per il 29 marzo. Terzo scenario: la premier potrebbe decidere che l’unica possibilità di uscire dallo stallo sia indire elezioni anticipate; questo comporterebbe, però, le sue dimissioni e il lancio della corsa per la leadership dei Tory.
Quarto e ultimo: May può convocare un secondo referendum per scegliere tra il suo accordo e il Remain ( restare nella Ue e rinunciare a Brexit), ma servirebbero mesi per organizzarlo e la domanda risulterebbe controversa. L’ultima variante, infine, riguarda l’ipotesi per cui i deputati, nel voto di domani, scelgano il «no» alla proroga dell’articolo 50. Si tratterebbe dell’ennesima disfatta per May, la quale a questo punto sarebbe oggetto di ulteriori pressioni per dimettersi. Si aprirebbe, dunque, la competizione per la leadership dei conservatori, in cui tra i successori favoriti spicca l’ex sindaco di Londra ed ex ministro degli Esteri, Boris Johnson.
Intanto i falchi della Brexit chiedono l’aiuto di Matteo Salvini per fare in modo che Londra non resti nell’Unione oltre il 29 marzo. E sperano in un veto del governo italiano al prossimo vertice del 21 e 22 marzo per impedire una proroga dell’uscita del regno Unito dalla Ue. Il fondatore della campagna Leave, Arron Banks, ha chiesto al leader della Lega di ascoltare l’appello lanciato ieri mattina da Nigel Farage, che ha chiesto di mettere il veto a un’eventuale richiesta di proroga dell’uscita il 29 marzo prossimo. «Potremmo avere bisogno di un piccolo aiuto dai nostri amici del continente sulla proroga dell’articolo 50. Matteo Salvini e altri...», ha scritto Banks, postando il video dell’intervento all’Europarlamento con cui Farage ha chiesto di mettere il veto alla proroga durante il prossimo Consiglio europeo del 21 e 22 marzo.
A Francoforte la parola «Brexit» è sinonimo di nuovi orizzonti. Grandi banche che aprono le loro filiali, eserciti di manager che organizzano il trasloco nella città in riva al Meno, scuole internazionali che vedono triplicare i propri studenti, Goldman Sachs che trasferisce in massa il proprio personale: a meno di ulteriori colpi di scena, con il probabile addio della Gran Bretagna all’Unione europea la quinta città per grandezza della Germania si candida a ereditare la centralità della City londinese e a diventare la nuova capitale finanziaria d’Europa. È un fenomeno iniziato subito dopo il referendum sulla Brexit, nel 2016, che riguarda il numero degli abitanti ( oltre 15 mila nuovi residenti ogni anno), ma soprattutto le aziende e le banche. Goldman Sachs in testa.