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Non essere tagliati fuori dalla “partita libica”. Rivendicare un ruolo di primo piano nella “cabina di regia” internazionale, un ruolo che rischia di saltare in un conflitto che ormai da tempo ha assunto i caratteri di una guerra per procura, condotta da attori regionali ( Turchia, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Qatar) e globali ( Russia e, sia pur più defilata, l’America) che intendono mettere le mani sulla “torta” multimiliardaria, legata allo sfruttamento delle risorse energetiche – gas e petrolio- e alla ricostruzione. Sostenere al- Sarraj e, al tempo stesso, non rompere il già deteriorato rapporto con l’uomo forte della Cirenaica: il generale Khalifa Haftar.
Un equilibrismo politico- diplomatico al limite della “mission impossible” è quello condotto dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio nella sua intensa missione, che lo portato prima a Tripoli e successivamente a Bengasi. La posizione italiana resta quella di sempre: la soluzione della crisi in Libia ' non può essere militare”. Un concetto che Di Maio ha ribadito sia negli incontri con le massime autorità del Governo di Accordo Nazionale ( GNA), l’unico riconosciuto internazionalmente, guidato da Fajez al- Sarraj, che negli incontri a Bengasi con il generale Haftar, forte del sostegno politico e militare di Russia, Egitto, EAU e Arabia Saudita, e col presidente del Parlamento di Tobruk) Aghila Saleh.
Dopo l’incontro con il premier di Tripoli, quest’ultimo “ha elogiato il sostegno dell’Italia al Governo di accordo nazionale e i suoi sforzi per superare l’attuale crisi”. Nel colloquio sono stati presi in esame dossier relativi a sicurezza, economia e immigrazione illegale. Al- Sarraj ha poi sottolineato che Tripoli “sta seguendo i preparativi per la conferenza di Berlino” e ha ribadito “la necessità di invitare tutti i Paesi interessati alla questione libica senza escludere nessuno”, nonostante non fosse in programma la presenza delle parti libiche all’incontro.
Ma dall’Italia, confidano a Il Dubbio fonti di Tripoli, Sarraj e le milizie che lo sostengono, vorrebbero non solo parole ma armi, fondamentali per poter arrestare l’offensiva su Tripoli delle forze pro- Haftar. Ma da questo “orecchio”, Roma non ci sente: si può lavorare ad un rafforzamento della contestata Guardia Costiera libica, ma quanto a missili e droni, l’Italia non ci sta.
Il titolare della Farnesina, in piena sintonia con il presidente Conte, ha ribadito che “la soluzione della crisi non può essere militare”. E un invito alla soluzione politica in Libia è venuto lunedì 16 anche dal presidente Mattarella il quale, durante lo scambio di auguri con il corpo diplomatico, ha ricordato che “solidarietà politica e comune visione in vicende come quelle che coinvolgono da troppo tempo la Libia sono indispensabili e sarebbero giovevoli”. Una linea “inclusiva” importante, impegnativa, che però deve fare i conti con un fatto rilevante: lo strumento militare è ormai centrale per definire i rapporti di forza al tavolo dei negoziati, e ignorarlo non aiuta a difendere gli interessi nazionali italiani.
L’ambasciata italiana riaperta a Tripoli è in continuo stato di allarme così come l’ospedale militare italiano vicino all’aeroporto. In gioco ci sono anche gli interessi dell’Eni che si sta cautelando cercando di estendere la sua attività nella vicina Algeria, ma anche di tutti quegli italiani che avevano investito ai tempi di Gheddafi e che hanno subito forti perdite o ridimensionamenti totali dalla guerra civile e che attendono una cessazione delle ostilità per cercare di recuperare i danni subiti e per riprendere l’attività.
L’Italia rilancia il suo ruolo di mediatore, ma deve fare i conti con le ambizioni in Libia e nel Nord Africa del “Sultano di Ankara”, il presidente della Turchia Recep Tayyp Erdogan, che ha portato alla firma su un Memorandum d’intesa tra i due Paesi per lo sfruttamento delle risorse marittime e per l’assistenza militare da parte turca. Una penetrazione che non piace neanche un po’ al grande sostenitore regionale di Haftar: l’Egitto di al- Sisi. “Non consentiremo a nessuno di controllare la Libia. È una questione che riguarda la sicurezza nazionale dell’Egitto”, è il monito che giunge da Il Cairo. In questo scenario, lavorare per un rapido cessate- il- fuoco, come ribadito da Di Maio nel suo tour libico, assume i contorni di una nobile ma irrealistica iniziativa.