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Non ho mai avuto simpatia per Eugenio Scalfari. Un po’ perché la sua è un figura altezzosa. Un po’ perché, politicamente, è sempre stato espressione di un pezzo di sinistra abbastanza lontana dalla sinistra che piaceva a me. Una volta – quando ero giovane, una trentina di anni fa – rifiutai persino una sua proposta di andare a lavorare a Repubblica. Perché mi sentivo lontano dal suo modo di pensare, di essere borghese.
Trovo francamente fuori da ogni misura della realtà, e anche volgari, gli attacchi che sempre più spesso gli vengono rivolti da giornalisti molto più giovani e molto molto meno dotati e meno autorevoli di lui. Lo accusano di oscillazioni politiche, oppure lo accusano di essere renziano, oppure gli rinfacciano di aver fatto parte della intellettualità progressista degli anni sessanta.
Alcuni di loro, per esempio Travaglio, evidentemente lo fanno non conoscendo bene la sua storia, per colpa delle loro giovane età e per lacune di studio. Altri, per esempio Vittorio Feltri, lo fanno fingendo di non conoscerla. E bastonano, bastonano. Bastonano il vecchio intellettuale liberale – per fortuna solo virtualmente – un po’ come i fascisti facevano – realmente – con Amendola, o con Gobetti, o con Rosselli.
Mi chiedo come si fa ad accusare di renzismo (seppure questo fosse un reato) un signore che da circa 70 anni è al vertice del giornalismo italiano, che ha interpretato ai massimi livelli il pensiero laico e liberale, che ha discusso di politica e di economia con Togliatti ed Einaudi, con Fanfani e Moro e Berlinguer, con Nenni, La Malfa, Craxi e Riccardo Lombardi. E che ha diretto e fondato il più importante e anticonformista settimanale italiano e il più innovativo e prestigioso quotidiano del dopoguerra.
Eugenio Scalfari, nella sua vita, e anche nella sua lunga carriera di osservatore politico – certo – ha commesso un numero notevole di errori. La sua continua ricerca di una sponda riformista nel mondo politico ha dato quasi sempre pessimi risultati, per colpa sua o per colpa della sponda. De Mita, Occhetto, Prodi. Ma non credo che nessuno possa negare che egli sia un colosso del giornalismo italiano. Nel dopoguerra non mi pare che esista no altre figure della sua statura, a parte, forse ( ripeto: forse), quella di Indro Montanelli.
L’ultimo attacco gli è venuto da Vittorio Feltri, il quale lo ha accusato di essere stato tra coloro che sottoposero a linciaggio morale il commissario di polizia Luigi Calabresi, nel 1971, e quindi di portare sulle proprie spalle la responsabilità morale per la sua uccisione ( avvenuta nel maggio dell’anno successivo). E gli ha ingiunto di chiedere scusa pubblicamente.
Scalfari ha già risposto, su Repubblica, con un articolo per niente reticente, molto sereno e anche dolce ( dote inconsueta per lui) che smonta l’assalto di Feltri. Non c’è molto altro da aggiungere a questa polemica.
Però forse c’è da fare qualche riflessione ulteriore per cercare di capire perché Eugenio Scalfari è diventato il bersaglio preferito dei giornali della destra e non solo della destra (compreso Il Fatto). Sento in questa aggressione tutta la forza e lo spirito di sopraffazione del moderno giornalismo, che si è sostituito al vecchio giornalismo, e lo disprezza, e vuole cancellarlo, e per cancellarlo tende a demolire i pochi simboli che sono rimasti. Il nuovo giornalismo – quello inventato da Vittorio Feltri un quarto di secolo fa, e che poi ha avuto molti seguaci, tra i quali il più noto è sicuramente Travaglio – è fondato non sulle idee, né tantomeno sulla ricerca dell’informazione, della descrizione, del racconto. Non tiene in nessuna considerazione l’aspirazione alla verità. Considera l’oggettività una dote degli imbelli, dei paurosi. E fonda se stesso solo sulla ricerca ossessiva di un avversario, della colpa dell’avversario, della maledizione dell’avversario, della punizione, della demolizione, dell’umiliazione. Perché immagina – forse con qualche ragione – che questa sia l’unica via per conquistare il favore del lettore, per prendere possesso dei suoi sentimenti – accarezzandoli, blandendoli, oppure incattivendoli – e quindi per assicurare una platea a una attività che altrimenti rischia l’isolamento e la sconfitta.
Il nuovo giornalismo ha escluso la possibilità di ricostruire una informazione di qualità. Dove le diverse posizioni si confrontino e lottino tra loro, e non si scontrino in una battaglia giudiziaria e di mostrificazione. Ha escluso il valore della verità. Ha abolito strumenti – una volta essenziali – come la verifica della notizia, il ragionamento sulla notizia, l’inchiesta, la ricerca, l’anticonformismo. Tutti elementi che ormai vengono considerati come impicci pericolosi. In parte anche per ragioni economiche. Verificare, studiare, indagare: costa. Richiede risorse umane molto grandi. Gli editori non vogliono. Vogliono la notizia subito, a due lire. Se c’è qualcuno, per esempio un po’ di Pm, disposto a fornirla, evviva i Pm.
Succede così che una volta avevamo Scalfari, e Montanelli, e Pintor, e Reichlin, e Biagi, e Valli, e Mo, Colombo, Levi, Casalegno, Tobagi, Pansa, Bocca: ora ci restano solo il ghigno avvelenato di Travaglio e le frecce di Feltri. Una volta c’era l’inviato che passava un mese ai cancelli della Fiat, o a Gibellina, e poi scriveva un’inchiesta in tre puntate. Ora c’è Marco Lillo che passa un paio d’ore davanti alla porta di un carabiniere o di un Pm, e poi consegna al suo direttore quattro presunti scoop già pronti. Una volta un buon giornalista doveva saper scrivere. Ora deve sapere trascrivere.
Mi ricordo che una trentina d’anni fa il giornale per il quale lavoravo, l’Unità, prese una gran cantonata: diede retta a un documento falso, che gli fu consegnato da un confidente della polizia o forse dei servizi segreti, e lo pubblicò. In questo documento c’era scritto che il ministro Scotti era stato in carcere a trattare con Raffaele Cutolo, boss della camorra, la liberazione di un assessore democristiano che si chiamava Ciro Cirillo e che era stato rapito dalle Brigate Rosse. Ci volle poco, nei giorni successivi, dopo le proteste indignate di Scotti e della Dc, per capire che il documento era falso. Si dimisero il direttore dell’Unità, il vicedirettore e il redattore- capo. E si dimise anche il vicesegretario – di fatto – del Pci, che era solo il partito editore. Il capo dei deputati comunisti si alzò nell’aula di Montecitorio e prese la parola per chiedere scusa. Si chiamava Giorgio Napolitano. Dare una notizia falsa, allora, era una cosa gravissima, quasi una vergogna per un giornalista. Di solito rovinava una carriera.
Ora, tra le altre varie bufale, ci troviamo di fronte a giornali che hanno condotto una campagna di giorni e giorni sulla base di un documento falso, prodotto da un carabiniere ora inquisito, che accusava il padre del premier dell’epoca – e cioè Renzi – di avere incontrato l’ex parlamentare Bocchino per conto dell’imprenditore Romeo. Si suppone, a fini di corruzione. Quando si è scoperto che era una balla confezionata apposta o per errore, non solo non si è dimesso nessuno, ma si è moltiplicata la campagna, si è dato fondo alle intercettazioni illegali, si è giunti fino all’abominio – per qualunque liberale, anche leggermente liberale... – di pubblicare le intercettazioni del colloquio tra un avvocato e il suo assistito.
È questo il nuovo giornalismo? A questo dobbiamo adeguarci? Bisogna chinare il capo perché è la modernità?
Se proprio devo chinare il capo, preferisco farlo per dare omaggio al vecchio, indomito, saccente e insopportabile Eugenio Scalfari.