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A marzo – quando i numeri di Alzano e Nembro spaventavano già oltre ogni misura – e si parlava di zone rosse e di impedire ogni mobilità tra regioni, a Luigi de Magistris, sindaco di Napoli scappò detto: «Se il contagio fosse partito dalla Campania e non dalla Lombardia, il primo decreto sarebbe stato quello di sparare a vista a qualsiasi meridionale». Che uno può leggerlo pure come il solito vittimismo dei meridionali, che un po’ ci inzuppano il pane, ma una qualche verità c’è. Anche perché era bastato – qualche giorno prima – che dei padri di famiglia riempissero un paio di carrelli della spesa a un supermercato di Palermo e fossero andati via sfondando le casse senza pagare – e là il ministro dell’interno Lamorgese si era lasciata andare a scenari apocalittici di rivolte sociali imminenti.
Perché c’è questa cosa qua che va detta – se tirano un petardo a Torino o a Milano è una cosa, ma se lo stesso petardo lo tirano a Napoli o a Palermo è un’altra. È una cosa antica, mica di adesso, antica almeno quanto l’Unità d’Italia – che una sua forzosità la ebbe, possiamo dirlo senza sembrare dei follower di Pino Aprile? Sì, c’erano stati i picciotti a Calatafimi a battersi con le camicie rosse e una lunga tradizione di libertà aveva innervato generazioni di patrioti risorgimentali siciliani e meridionali. Ma la forzosità c’era stata, e un certo dispregio delle classi politiche e intellettuali del Nord verso il Sud era rimasto. Avevano esportato la democrazia al Sud – più o meno era questa l’idea. Quando, appena sei anni dopo l’Unità, Palermo – delusa e amareggiata – insorge guidata da repubblicani e garibaldini contro il nuovo Regno, le tasse e la coscrizione obbligatoria, che erano le uniche cose nuove che erano arrivate, re Vittorio ordina a Ricasoli a mezzo un telegramma di fuoco che la rivolta sia troncata: «Il me semble nécessaire une sévère leçon à ces malfaiteurs qui viennent de troubler l’ordre et la tranquillité publique... J’espère donc que vous n’aurez aucune pitié de certe canaille».
Malfaiteurs, canaille. Pure in francese, che manco in italiano si degnò di dirlo re Vittorio, come a rimarcare una distanza anche linguistica. Mafiosi – fu detto pure questo nelle cronache del tempo, e come no. E pensare che i capi della rivolta avevano pure seguito Garibaldi nell’avventura di Aspromonte. Non è che le cose siano cambiate tanto, da allora. Ogni volta che una protesta popolare, sociale si manifesta nel Meridione – c’è come un tic nervoso, una reazione coatta, un gesto incontrollato: è la mafia. O è la ndrangheta, o è la camorra. La camorra è stata subito tirata in ballo pochi giorni fa per le proteste di Napoli – e non da un qualche impressionabile opinionista ma da Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia, insomma uno che queste cose le mangia a colazione e cena: «C’è la regia camorrista». La regia eh, mica solo la manovalanza.
Così, è toccato a Roberto Saviano, che pur non guidando alcuna Commissione antimafia o alcuna Procura una sua qualche conoscenza delle cose l’ha accumulata negli anni, dire che no, «i camorristi guadagnano dal lockdown: fanno prestiti, acquistano aziende e ristoranti che stanno fallendo». E quindi non hanno nessun interesse a fare casino e proteste per trovare un qualche rimedio, anzi. Una lenta agonia e si sfregano le mani. È questo che è toccato fare a Napoli: rompere l’incantesimo malefico che ha addormentato tutto. In cui la parola d’ordine sinora era stata: Non disturbate il manovratore. Un lento piano inclinato, in cui tutti i provvedimenti governativi non riescono a colmare il disagio che intanto cresce. È come se per l’epidemia, per quanti tamponi tu faccia e per quanti asintomatici trovi e li metti in quarantena, ce ne sono sempre di più – e non riesci a fermarla. E così è per l’epidemia economica: per quante casse integrazioni ti inventi, per quanti bonus, per quanti sostegni e ristori – c’è sempre una categoria che rimane fuori e scivola verso la povertà. La povertà: la Caritas ha anch’essa i suoi bollettini quotidiani e riportano i piatti di pasta che vengono forniti quotidianamente alle mense gratuite. E crescono di numero. Napoli ha sorpreso tutti, proprio perché tutti siamo sotto l’incantesimo malefico: siamo spaventati, siamo stanchi. E all’improvviso migliaia e migliaia di persone scendono in strada e in piazza – con la mascherina, provando a stare distanziati, e non sono No- Mask, non sono fuori di testa “Qui non c’è coviddi” – e dicono che così stanno morendo, stanno morendo le loro attività, si vanno licenziando i dipendenti, sta spegnendosi la vita sociale di una città. Poi c’è stata Catania, poi c’è stata Milano, poi c’è stata Torino. Napoli ha tolto il tappo: il conflitto è contagioso.
Ma non è solo un grido di dolore che è salito dal Sud e ha trovato eco al Nord. Le manifestazioni di Napoli sono state un grande sussulto di democrazia. Il più importante sussulto di democrazia, dall'inizio della pandemia. Ci sono stati cassonetti bruciati – è vero. Ci sono state aggressioni – è vero. Non hanno fatto bene, queste cose, alla manifestazione – è vero pure questo. I primi a saperlo sono proprio i napoletani che sono scesi in piazza e hanno continuato a farlo. Le manifestazioni di Napoli hanno rotto la paura e la depressione. Non sono ' per principio' contro il governo: Napoli chiede provvedimenti, suggerisce iniziative, sollecita interventi. Non vuole la rivoluzione – mammamia. Vuole essere partecipe, vuole essere presa in considerazione, vuole dire la sua. Perché è della sua pelle che si va decretando. Questo è il messaggio "universale" che viene da Napoli – perché “vada tutto bene” bisogna coinvolgere le persone nelle decisioni, bisogna ascoltarle, bisogna capire le difficoltà che si vivono. Il contagio sta rendendo ancora più “liquida” la società – se i luoghi della decisione politica si ritraggono, questo è il pericolo vero per la democrazia.