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Angelo Peveri non sparò per legittima difesa, ma con modalità «criminali», solo per dare una lezione a Dorel Jucan, il rumeno che si era introdotto in un parcheggio non custodito per rubare gasolio. E per farlo lo ha inseguito, malmenato e fatto inginocchiare, puntando un fucile a pompa al petto e sparando a bruciapelo, dall’alto verso il basso, senza che la sua vittima potesse difenderli. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, che con le motivazioni della sentenza di condanna a 4 anni e mezzo inflitta a febbraio all’imprenditore piacentino, di fatto, ha riscritto la storia che ha portato alla riforma della legittima difesa. Fu proprio il suo caso, infatti, a spingere il ministro Matteo Salvini a spingere sull'acceleratore per portare in aula la riforma, che poi riuscì ad ottenere a marzo scorso, con il sì in Senato del testo poi divenuto legge. Ma in questa storia, secondo gli Ermellini, in realtà di legittima difesa non c’è alcuna traccia: l’azione messa in atto da Peveri, secondo la sentenza, è soltanto un tentato omicidio. Tutto accadde il 5 ottobre del 2011, quando Peveri, dopo aver sorpreso alcuni ladri intenti a sottrarre carburante dai serbatoi di alcuni mezzi di sua proprietà, parcheggiati in un luogo incustodito, sparò tre colpi (sostenendo di avere puntato in aria, circostanza smentita dalle indagini), ferendo uno dei ladri a un braccio. La banda si dileguò e tutto sembrava esser finito lì. Ma poco dopo Jucan tornò a recuperare l’auto, abbandonata prima della fuga nel cantiere. E lì trovò Peveri ad attenderlo assieme ad un suo operaio. I due lo immobilizzarono, per poi sbattergli più volte la testa per terra. E fu a quel punto che Peveri sparò il quarto colpo, a poco più di un metro dal petto di Jucan, costretto ad inginocchiarsi. Una storia finita con una lunga convalescenza e una pena a 10 mesi per tentato furto per Jucan. E molto diversamente per Peveri. L’imprenditore aveva sostenuto di aver sparato un solo colpo, tesi non riscontrata dal numero di bossoli trovati sul posto. Dopo aver sparato a Jucan al petto, aveva ricaricato poi «volontariamente» almeno tre volte l’arma, che, però, si era inceppata, lasciando un colpo in canna inesploso. Situazioni in aperto contrasto con la tesi difensiva del ferimento accidentale. Peveri, secondo i giudici, «aveva indubbiamente agito con la volontà di ledere Jucan», sparando, peraltro, con un «un micidiale fucile a pompa a breve distanza dalla vittima inerme e diretto al torace»,indifferente «alle conseguenze del suo gesto, e dunque con previsione e volontà, in via alternativa, del ferimento oppure della morte». Non si parla mai,nella sentenza, di legittima difesa, ma di «azione criminale», compiuta, peraltro, con «odiose modalità», rappresentate dalle «ripetute percosse inferte, anche con un corpo contundente, a vittima non armata, che invano esternava supplichevoli manifestazioni di pentimento, esplosione a distanza ravvicinata di un colpo da un micidiale fucile a pompa diretto al torace della vittima». Azioni motivate, oltretutto, non dalla volontà «di bloccare i ladri», bensì «di dar loro una lezione». Per Salvini, che aveva anche annunciato - pur non potendolo fare, non essendo direttamente coinvolto nel caso - di voler chiedere la grazia al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il caso Peveri era invece la prova dell’urgenza di una riforma sulla legittima difesa. Una norma che, secondo un’altra pronuncia della Cassazione, ha effetto retroattivo, ma che non può essere applicata all’imprenditore piacentino, che agì al di fuori del suo domicilio, in un parcheggio non custodito, e soprattutto animato soltanto dalla volontà di punire in maniera esemplare i ladri. L’imprenditore, che dopo la condanna aveva ricevuto in cella la visita di Salvini, che si era impegnato a farlo stare «in galera il meno possibile», è stato condannato anche per le lesioni personali aggravate nei confronti del complice di Jucan, Andrei Ucrainet, colpito di striscio dal fucile a pompa mentre scappava lungo il fiume Tidone.