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La realtà supera la fantasia, verrebbe da dire a leggere il racconto pubblicato dal presidente dell’Unione Camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza. Ed il racconto, nel caso specifico, riguarda ancora una volta il processo da remoto, le sue implicazioni, le sue conseguenze. Caiazza riassume quanto contenuto in un avviso di udienza, notificato dal Tribunale di Roma alle parti per un processo che vede imputate 69 persone, con sette parti civili pronte a costituirsi. Un numero almeno da raddoppiare, considerati difensori delle parti, giudici, pubblico ministero, cancellieri e quant’altro serva per un dibattimento - «ma non definitelo tale, vi supplico», precisa Caiazza. Le udienze, stando al decreto, sono fissate nei giorni 27, 28 e 30 aprile prossimi “davanti” al collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Roma. In aula, a Piazzale Clodio, saranno presenti solo i tre giudici del Collegio ed il cancelliere per la verbalizzazione. E sono i tre giudici a decidere, come previsto dal decreto firmato dal Governo, dove e come svolgere l’udienza. Che più che un processo, denuncia Caiazza, rischia di rivelarsi una farsa, al limite del grottesco. Il primo punto è l’utilizzo della piattaforma Teams di Microsoft, secondo le indicazioni ministeriali. «Ci rassicura, il Giudice, che il programma “è nella disponibilità di tutti” - scrive Caiazza in un lungo post su Facebook -. Non solo: le parti vengono anche tranquillizzate perché “la piattaforma Teams non richiede da parte dei soggetti invitati ad accedervi dal giudice che tiene l’udienza nessuna particolare conoscenza o abilità aggiuntiva”. Insomma, se non sei capace di collegarti sei un perfetto idiota, dunque peggio per te». Questa, dunque, la prima nota dolente. Ma non la peggiore, perché il decreto stabilisce anche, per filo e per segno, chi si troverà dove durante l’udienza. E senza possibilità di trasgredire, stabilendo, di fatto, anche una gerarchia dei rischi, che emerge tra le righe: mentre c’è chi rimarrà al sicuro nel proprio ufficio, per qualcun altro non viene considerato il rischio di doversi spostare da un posto all’altro, creando così “assembramenti” con colleghi e imputati. Mentre gli imputati detenuti si collegheranno dal carcere, sempre sfruttando la piattaforma Teams, infatti, il pm si collegherà dal proprio ufficio, gli imputati liberi e quelli agli arresti domiciliari dallo studio dei loro difensori, i difensori dai loro rispettivi studi professionali. Ma c’è una postilla: «un solo collegamento per ciascun imputato». Il che significa che, in caso di più difensori, gli stessi dovranno scegliere se riunirsi nello studio dell’uno o dell’altro. Mentre i testi di Polizia Giudiziaria accederanno all’udienza dagli uffici di un servizio territoriale della propria Arma di appartenenza. «Quindi, il Tribunale dispone non solo che le parti debbano avere Teams su un proprio computer, e che debbano saperlo usare - continua Caiazza -, ma dispone anche dei diritti proprietari degli avvocati rispetto ai propri studi, dove d’imperio non solo essi dovranno stare, ma dovranno altresì ricevere i propri assistiti e l’eventuale co-difensore (che dunque avrà invece l’obbligo di trasferta)». Situazioni che, secondo il presidente dell’Ucpi, già da sole basterebbero a sollevare decine di eccezioni. Ma in questo contesto l’altra faccia della medaglia sarà anche quello dei possibili problemi di linea, dei fermo immagine, degli audio traballanti. Una «grottesca mostruosità», denuncia Caiazza, che rischia di non andare oltre la mera costituzione delle parti. Uno scempio, aggiunge ancora il penalista, che mina il rito sacro del processo penale, «degradato ad un videogame con tanto di assegnazione autoritativa delle postazioni, fin dentro gli studi professionali dei difensori». E sul tema, la Giunta dell’Ucpi, in riunione permanente, ieri sera ha ribadito la contrarietà ai principi costituzionali del processo virtuale, che presenta «inquietanti risvolti legati all’utilizzo di piattaforme informatiche sottratte alle vigilanza della giurisdizione nazionale che, come già sottolineato nel nostro documento, sono prive di “garanzie di legittimità, segretezza, privacy e cybersecurity dell’accesso ai dati e del loro trattamento secondo le leggi vigenti nel nostro Paese, nonché seguendo modalità organizzative determinate non dalla legge ma, incredibilmente, dall’Autorità amministrativa ministeriale”». Una denuncia fatta propria– a seguito della segnalazione dell’Ucpi, dall’Autorità garante per la protezione dei dati personali, il cui presidente, Antonello Soro, ha scritto una lettera al ministro della giustizia Alfonso Bonafede chiedendo che gli sia fornito «ogni elemento utile alla comprensione delle caratteristiche dei trattamenti effettuati nel contesto della celebrazione, a distanza, del processo penale, ai fini dell’esercizio delle funzioni istituzionali attribuite e questa Autorità».