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Il primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il pg Giovanni Salvi prima della cerimonia inaugurale dell'anno giudiziario, celebrata ieri presso la Suprema corte
«Noi magistrati del pubblico ministero siamo legati all’avvocatura dal comune sentire nell’affermare i valori costituzionali, e l’avvocatura, nell’esercitare in autonomia il suo ruolo, garantisce anche la nostra indipendenza». È il riconoscimento che il procuratore generale Giovanni Salvi decide di rivolgere subito, all'inizio del suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario celebrata ieri in Cassazione.
Salvi è un magistrato di tale spessore da godere di un vantaggio: per essere ascoltato non ha bisogno di ricorrere a mirabolanti artifizi retorici. Intanto perché vanta la memoria storica del sacrificio offerto alla giustizia dai magistrati vittime di terrorismo e mafia: cita «Nicola Giacumbi, Guido Galli, Mario Amato, Gaetano Costa» e un sostituto pg della Suprema corte come «Girolamo Minervini». Ma l’intervento di Salvi all’inaugurazione dell’anno giudiziario ieri in Cassazione ha anche una tale forza negli argomenti da accordarsi perfettamente con parole semplici e immediate.
Il procuratore generale ha la capacità di andare subito dritto a un punto che non è politicamente neutro: il rapporto fra i due protagonisti della giurisdizione. «Un saluto particolare, a nome dei magistrati del pubblico ministero, va all’avvocatura, alla quale», scandisce appunto Salvi, «siamo legati dal comune sentire nell’affermare i valori costituzionali e che, nell’esercitare in autonomia il suo ruolo, garantisce anche la nostra indipendenza». C’è bisogno di aggiungere altro? Il pg di Cassazione in un colpo risolve le incredibili contrapposizioni insorte, proprio a poche ore dalla cerimonia inaugurale, sul diritto di difesa e sul suo presunto esercizio strumentale. Non solo. Coglie con pochissime parole lo snodo essenziale della riforma per il riconoscimento dell’avvocato in Costituzione: la necessaria reciproca tutela, fra avvocati e magistrati, dell’indipendenza di ciascuno.
Non a caso il presidente del Cnf, intervenuto poco dopo di lui, citerà proprio Salvi, nel rivolgere il suo appello per l’approvazione di quella riforma. Ma la forza del discorso non si esaurisce in una simile apertura di sguardo. C’è innanzitutto il passaggio, riservato alla «grave vicenda, dai risvolti anche giudiziari» che ha «investito» il Csm. Il caso Palamara, evidentemente. Il pg, che è anche titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei colleghi, ringrazia innanzitutto il Capo dello Stato Sergio Mattarella, che presiede anche il Consiglio superiore e che è in aula magna, davanti a lui, ad ascoltarlo. Spiega come lo scandalo del maggio 20219 debba far riflettere sulla stessa «rappresentanza elettiva» dei magistrati nell’organo di governo autonomo. Una dinamica voluta «dal Costituente e implicante il riconoscimento del valore positivo delle differenze ideali».
Ma se le correnti sono preziosa occasione di pluralismo, pare sottintedere Salvi, l’attuale «meccanismo elettorale» ne ha «fatto emergere gli aspetti più negativi, se non addirittura deleteri». Fino a favorire, «un’aspettativa di realizzazione di interessi personali, vissuti come pretesa di tutela in sede consiliare».
È severo, Salvi, con i suoi colleghi. Ma con un inciso che, in poche altre battute, squaderna e forse chiarifica il dibattito sulla riforma penale. Ci arriva a partire dal passaggio più aspro nella censura del «mercimonio della funzione», praticato da alcune toghe protagoniste «anche in questi giorni, di fatti di particolare gravità». Un degrado che ha portato persino all’adozione «delle più rigorose misure cautelari». E che comunque determina un «danno incalcolabile» alla «funzione giurisdizionale».
Ebbene, vista la necessità offerta da tali, tristi vicende, «la Procura generale considera le sue attribuzioni in materia disciplinare fondamentali per contribuire allo svolgimento corretto della funzione giudiziaria», visto «quanto incidano nella fiducia dei cittadini i comportamenti patologicamente impropri dei magistrati». Eppure, e qui siamo al punto, «la disciplina non può essere strumento di regolazione dei tempi dei procedimenti». Passaggio che può anche suonare come monito al legislatore, affinché si guardi bene dall’illusione secondo cui i processi diventerebbero miracolosamente brevi se solo il giudice fosse schiacciato dalla minaccia della punizione.
Ma l’altro versante dallo straordinario rilievo, nell’intervento del pg, riguarda - pur sempre nella assoluta semplicità delle parole - la deformazione del processo attraverso i suoi surrogati mediatici. A proposito delle «dichiarazioni» diffuse dai pm, Salvi ricorda che la loro «moderazione», resa «necessaria dalla precarietà dell’accertamento non ancora sottoposto alla piena verifica del contraddittorio», è una «manifestazione della professionalità del Capo dell’ufficio». Mai cercare, nell’azione inquirente «il consenso della pubblica opinione». Neppure si deve dare il «sospetto», di una simile aspirazione. Anche perché, ed è la lezione più preziosa, «questa sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero».
Il pg presso la Cassazione ricorda il contributo offerto al sistema da parte del suo ufficio, rispetto alla «prevedibilità» dell’azione penale. È l’orizzonte in vista del quale la Procura generale ha contribuito alla elaborazione della Corte in delicate materie, quali «il diritto delle persone e della famiglia, le tutele nel lavoro, in particolare per i riders, la protezione internazionale, la crisi di impresa». Dei dati statistici (oltre all’allarme sui femminicidi, richiamato in un altro nostro servizio, ndr) Salvi tiene a puntualizzare la reale consistenza di quella «distonia tra l’esercizio dell’azione e i suoi esiti dibattimentali». Va tenuto conto che le «assoluzioni depurate dagli esiti non di merito» sono in realtà meno «del 20%».
Nel chiudere, il titolare dell’azione disciplinare richiama i pm anche dal rischio di assumere le sembianze di una sorta di cavaliere nero nel cosiddetto «governo della paura». Perché «dal desiderio di assecondare la rassicurazione sociale all’idea di proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, che esporta il conflitto sociale e combatte il nemico, il passo non è poi troppo lungo». Riecco l’eco delle distorsioni mediatiche che possono avvicinare una deriva americana della giustizia.
Mentre si dovrebbe essere orgogliosi di una civiltà del diritto come la nostra, così descritta alla fine dal pg a proposito del contrasto al terrorismo: «Sia sempre rispettoso delle garanzie di libertà, che sono poi i valori fondamentali ai quali il terrorismo attenta». Non si devono rincorrere «le esigenze securitarie». Serve il «coraggio». Quello dei magistrati martiri citati all’inizio.