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Il sovranismo pop celebra i suoi effimeri trionfi tra Milano Marittima e Cervia; la sovranità nazionale arretra ai margini della politica europea e sembra votata all’irrilevanza.
Il Papeete Beach non è il Viminale: eppure lì si è consumato l’ultimo assalto al ritualismo politico d’antan portando il cuore del potere dietro una consolle tra cubiste seducenti e folle danzanti al ritmo di Fratelli d’Italia in versione trash.
Mentre nei nove giorni che Salvini si è concesso in riviera, godendo della compagnia di familiari ed esponenti del partito e del governo e alternando a tuffi e selfie intemerate contro giornalisti, opposizioni e alleati, altrove si discuteva sugli assetti della governance dell’Unione europea.
Per esempio a Budapest, dove Viktor Orbàn riceveva con tutti gli onori la neo- eletta presidente della Commissione Ursula von der Leyen alla quale ha fornito le proprie indicazioni per il seggio ungherese ricevendone in cambio parole di stima non scontate alla vigilia dell’incontro.
Ed il puzzle dell’organismo esecutivo si è allargato negli stessi giorni ad altri Paesi visitati dalla von der Leyen la cui tappa italiana, segnata da viva cordialità con il presidente Giuseppe Conte, ha fatto registrare una battuta d’arresto imprevista nel lavoro di tessitura che dovrebbe concludersi entro la fine di agosto.
Conte non ha potuto fornire alla presidente della Commissione il nome o i nomi che ella si aspettava perché da Milano Marittima indicazioni ed orientamenti non ne venivano, al di là dei soliti nomi buttati al vento.
La von der Leyen se n’è tornata a Bruxelles con l’immagine di un Paese che pure fu tra i fondatori della nuova Europa ( i Trattati vennero firmati a Roma nel 1957), distratto dalle bizzarrie pop di una politica colorata che, secondo i nuovi governanti populisti ( sempre pop) dovrebbe trascinare il “cambiamento” europeo.
Da altre spiagge e piazze e valli probabilmente Salvini comunicherà le sue decisioni nei prossimi giorni. E l’Italia le ingoierà perché altro non può fare, ricordando con nostalgia ( forse) il tempo in cui anche il nostro Paese, senza proclamare un inservibile ed inesistente “sovranismo”, la sovranità riusciva ad esercitarla, per come poteva, si capisce, dato il contesto internazionale.
E accadeva che di fronte a scelte cruciali, maggioranza ed opposizione riuscivano anche ad accordarsi sulla nomina di due ( non uno come oggi) commissari europei peraltro mettendo in campo risorse di prim’ordine. Accadeva al tempo del bipolarismo aggressivo, tanto per essere chiari, caratterizzato dal conflitto d’interesse e dagli echi di Tangentopoli tutt’altro che spenti.
Nel 1994, Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, proponeva all’opposizione le nomine di Mario Monti e di Emma Bonino: nessuno si pose il problema dell’appartenenza, ma vennero accettate senza polemiche e a Bruxelles diedero il meglio sui temi della concorrenza e dei diritti umani.
Cinque anni dopo, nel 1999, fatto fuori da presidente del Consiglio con una congiura tutta interna al centrosinistra, Romano Prodi si vede offrire dal “nemico” Massimo D’Alema la candidatura alla presidenza dell’Unione. Ci si sarebbe attesi l’opposizione di Berlusconi, battuto tre anni prima dal professore bolognese. Neppure per sogno.
L’interesse nazionale prevalse ancora una volta ( non a tutti piacque, ma il metodo funzionò) e l’Italia ebbe la guida della Commissione. In aggiunta ad un altro Commissario: Mario Monti che in dieci anni si fece apprezzare tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. La politica dell’appeasement, degli accordi super partes, delle visioni che superano le contingenze è materia che non si pratica più da tempo dalle parti nostre. Lo scontro è totale, il conflitto radicale, l’essenza sempre e soltanto propagandistica.
Anche quando si sa di rimetterci in prestigio e vantaggi concreti che inevitabilmente sfumeranno.
Le stagioni evocate - quando le forze politiche cercavano convergenze possibili su grandi temi ( non dimentichiamo l’ultima Bicamerale per le riforme istituzionali fatta fallire in maniera rocambolesca quando il risultato era a portata di mano) sono lontane. La politica è cambiata, si dice. Ed è vero. Ma chi può dire sinceramente che è migliorata?
Se una volta maggioranza ed opposizione trovavano punti d’intesa su questioni nodali, oggi neppure tra le forze di governo si pratica la ricerca dell’accordo. Nel deserto della politica fioriscono stili in linea con lo spirito del tempo. Che si consuma al Papeete Beach, come altrove, mentre nella Terra dei Fuochi si accendono ancora focolai di terrore e la Tav attende di conoscere il destino che avrà, ed il Pil frana, la disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno assume proporzioni inquietanti, la produzione è ai minimi storici e la criminalità assedia borghi e città.
Almeno un nome, tirato a caso, lo si sarebbe potuto dare alla von der Leyen. Con un pizzico di sarcasmo si potrebbe dire: fosse stata pure quello di una cubista che canta l’inno nazionale.