Sehid namirin. E’ un’espressione curda. Significa i martiri non muoiono mai. E’ vero. Le parole sono le armi più affilate di noi avvocati per rivendicare giustizia e diritti, e sono immortali.

Le parole di Ebru Timtik sono lapidarie: «Se un’avvocata muore, domanderà giustizia dalla sua tomba! Romperemo tutte le nostre catene, vogliamo libertà per gli avvocati, libertà di difendere i nostri assistiti, libertà!».

Dopo il colpo di stato, all’indomani della proclamazione dei liberticidi decreti emergenziali e della serie di arresti che ne è conseguita, un collega mi disse che la Turchia si stava trasformando in una prigione a cielo aperto, che comprendeva chi era fisicamente in carcere, chi sapeva che prima o poi, in ragione del proprio lavoro o della banale espressione della propria opinione sui social media, ci sarebbe potuto finire, e chi di fatto aveva già le mani legate, avendo perso il lavoro ed avendo i propri beni congelati dal governo e nessun mezzo giudiziario per difendersi.

Il ruolo degli avvocati è stato essenziale per segnare la via della democrazia, per invocare il giusto processo, per dare una speranza di giustizia. Per le sue parole di denuncia e di pace è stato ucciso l’avvocato Tahir Elci, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir, e sono stati detenuti gli avvocati Taner Kilic, presidente di Amnesty International e Selahattin Demirtas, leader del partito di opposizione HDP, ancora in prigione sebbene la CEDU ne abbia chiesto la scarcerazione.

Ebru, detenuta all’esito di un ingiusto processo, privata della possibilità di difendere e di difendersi, con lo sciopero della fame ha scelto di fornire al mondo una prova materiale del grado di crudeltà al quale il regime turco può arrivare. Sebbene vulnerabile, ha continuato a lungo ad essere detenuta in un carcere con molti contagiati dal covid.

Le è stato negato il diritto a consultare un medico di fiducia. E’ stata trattenuta in ospedale in condizioni paradetentive incompatibili con il suo stato di salute.

Ha chiesto alla Corte Europea di disporre una misura urgente per preservare la sua salute, di poter continuare la misura cautelare in un ambiente compatibile con le sue condizioni e di poter consultare un medico di fiducia, ma la decisione non è arrivata in tempo, lei è morta prima, consumata dall’indifferenza di un dittatore per le persone che tiene in custodia. Come ha giustamente scritto il suo collega Aytac Unsal, anche lui in sciopero della fame ed in gravi condizioni, ora Ebru «sta nascendo nei cuori e nelle menti delle persone».

Ebru ha donato la sua vita per la giustizia, non solo per lei e per gli altri avvocati coimputati, ma per tutte le vittime delle purghe di Erdogan, dell’ingiusto processo in Turchia, per tutti i detenuti di opinione i cui diritti sono stati violati, per tutti quelli indebitamente esclusi dall’amnistia.

Questo gesto di umanità, questo atto ultimo come avvocata del popolo, incarnato nel suo cadavere, trenta chili di pelle ed ossa, ha messo il mondo davanti alla drammaticità dell’indifferenza del regime turco per il rispetto dei diritti umani fondamentali.

L’effetto farfalla che ha scatenato è di una potenza impressionante: la società civile è rimasta basita dal fatto che Erdogan abbia lasciato morire di fame un’avvocata in carcere, ed abbia apertamente minacciato di rappresaglie tutti gli avvocati che avevano dimostrato solidarietà alla collega defunta; i media ed i politici italiani ed europei improvvisamente hanno aperto gli occhi davanti a tutte quelle gravissime violazioni dei diritti umani che hanno fino ad oggi hanno deliberatamente ignorato quando denunciate dai detenuti vivi o dagli osservatori internazionali. Gli avvocati italiani, che da mesi compatti chiedono al Governo italiano di intervenire per la liberazione dei colleghi turchi, sono rimasti basiti per l’assoluto silenzio del premier e dei Ministri davanti alla morte di Ebru e per l’assenza di qualsiasi riscontro alle richieste formulate; la comunità dei giuristi europei è indignata per il rigetto della misura urgente richiesta da Unsal alla Corte Europea, e per la contemporanea accettazione da parte del Presidente Robert Ragnar Spano di un’onorificen- za da parte della medesima Università di Istanbul che ha illegittimamente licenziato 192 accademici, colpevoli di aver firmato un appello per la pace. E’ pure insorto il dibattito se Ebru si debba definire avvocata, avvocatessa o avvocato ( in italiano, come impiegato si declina al femminile in impiegata, avvocato in avvocata, non esistendo un genere neutro).

Ora, i relatori speciali ONU chiedono la revisione del processo ed i relatori speciali PACE chiedono alle autorità turche di assicurare libertà professionale agli avvocati turchi, un giusto processo, e l’immediata liberazione per Unsal.

La Corte Europea, nel provvedimento con cui rigetta la richiesta di misura urgente, chiede comunque al governo a tener conto della sua richiesta di consultare medici di fiducia.

La morte di Ebru ha dunque toccato i cuori e le menti di tutte e tutti noi, non resta che un sincero augurio: che questo effetto farfalla non si perda con lo spegnimento dei riflettori, che ci aiuti a scongiurare la morte di Aytac Unsal e che ci porti in particolare ad aprire una riflessione pubblica sull’efficacia del sistema internazionale e regionale dei diritti umani nel garantire tempestiva ed effettiva protezione agli individui i cui diritti umani vengono gravemente violati da parte di attori statali.

* Avvocata, membro del comitato esecutivo di Eldh ( Associazione avvocati europei per la democrazia e i diritti umani)