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«L’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore.». È quanto si legge nelle motivazioni depositate ieri dai giudici della Consulta in merito all’incostituzionalità parziale dell’articolo 580 del codice penale, questione sollevata nel corso del processo al radicale Marco Cappato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani, alias Dj Fabo, avvenuto il 27 febbraio 2017. Una decisione alla quale Fabo era arrivato autonomamente, dopo lunghe sofferenze causate da un incidente stradale che lo aveva lasciato tetraplegico e totalmente cieco, pienamente capace di intendere e volere ma in una condizione di dolore e priva, per il suo sentire, di dignità. E la Consulta, che già nel 2018 aveva invitato, inutilmente, il Parlamento a colmare il vuoto normativo, è intervenuta per conciliare il diritto all’autodeter-minazione e la necessità di evitare abusi nei confronti delle persone più vulnerabili.
Sebbene, dunque, «l’incriminazione dell’aiuto al suicidio», non possa ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione, la norma contiene «una circoscritta area di non conformità costituzionale», nei casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli. In casi del genere, dunque, «l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita» può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi «a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare» per Costituzione. Ovvero proprio come nel caso di Dj Fabo, sottolineano i giudici. È lo stesso malato a poter scegliere di porre fine alla propria vita, con l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sedazione profonda continua, in forza della legge sul testamento biologico. Ma in assenza di leggi che consentano medicalmente la morte, il paziente sarebbe costretto a «subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care». Nei limiti considerati, dunque, «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze - scrive la Consulta -, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita». Ma essendo necessario evitare situazioni di abuso - da qui il no ad un annullamento “secco” della norma incostituzionale - è necessario ricavare «criteri di riempimento». L’aiuto al suicidio non è dunque reato nei casi in cui il paziente si trovi ad affrontare una patologia irreversibile che comporta grave sofferenza fisica o psicologica, che lo porti a dipendere da trattamenti di sostegno vitale mantenendo, comunque, la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. Presupposti la cui verifica rimane in capo a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, coadiuvate dai comitati etici territorialmente competenti, per garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. La decisione della Consulta riguarda, però, solo i fatti successivi alla sentenza, mentre i casi precedenti, come il caso Cappato, occorrerà che l’aiuto al suicidio sia stato prestato con modalità che diano garanzie equivalenti.