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Ergastolo per per il superlatitante Matteo Messina Denaro, riconosciuto dalla Corte d'Assise di Caltanissetta tra i mandanti delle stragi del 1992 di Capaci e via d’Amelio. Il dispositivo è stato letto pochi minuti prima della mezzanotte dopo una lunga camera di consiglio durata oltre tredici ore dal presidente del collegio, Roberta Serio, che ha accolto la richiesta avanzata dal pm Gabriele Paci. Il latitante originario di Castelvetrano era già stato condannato all’ergastolo per le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano in cui morirono dieci persone e non era mai stato processato per le bombe che causarono la morte dei magistrati Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e gli agenti delle scorte. La sentenza di questa notte riconosce il suo ruolo nella "strategia stragista" come anello di collegamento tra le bombe del 1992 pretese da Totò Riina e gli attentati nel nord Italia, a Firenze, Milano e Roma del 1993, volute da Bernardo Provenzano. In quell’estate iniziò la sua latitanza che prosegue da 27 anni. «Messina Denaro è stato un mafioso che ha rinunciato a qualsiasi spazio vitale di autonomia sapendo che era l’inevitabile dazio da pagare per la sua ascesa dentro Cosa nostra, carriera che Riina favorì, nominandolo reggente della provincia di Trapani», ha detto il Pm Paci durante la requisitoria. Nel corso del processo, iniziato nel 2017, la Corte ha ascoltato decine di collaboratori di giustizia, ricostruendo i mesi precedenti agli attentati che portarono all’uccisione dei magistrati Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. «La decisione di uccidere i due giudici non fu un fatto isolato, ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza - ha aggiunto il pm nel corso della requisitoria - dando un consenso, una disponibilità totale della propria persona, dei propri uomini, del proprio territorio, delle famiglie trapanesi al piano di Riina che ne fu così rafforzato e che consentì alla follia criminale del capo di Cosa nostra di continuare nel proprio intento: anzi, più che di consenso parlerei di totale dedizione alla causa corleonese». Il processo ha passato al setaccio i mesi precedenti ai due attentati, rileggendoli alla luce di nuove testimonianze, associate ad elementi emersi nel corso dei processi svolti in questi decenni. In questi anni l’attuale latitante di Castelvetrano è già stato condannato per le bombe che nel 1993 colpirono il nord Italia, a Firenze, Milano e Roma. Ma il suo ruolo sarebbe emerso già alcuni anni prima, alla vigilia delle due Stragi in cui furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: sia nell’anestetizzare i cosiddetti "dissidenti interni", che per programmare gli attentati. Durante il processo si è discusso di due riunioni svolte alla fine del 1991, una ad Enna ed un altra a Castelvetrano, nel corso delle quali sarebbe stata decisa la "strategia stragista" da adottare. A chiarire il profilo del latitante a ridosso delle due stragi, «non ci sono soltanto i nuovi pentiti del trapanese, ma anche le dichiarazioni di Spatuzza e Tranchina», ha detto il pm Gabriele Paci, titolare dell’accusa, oltre che «le intercettazioni di Totò Riina in carcere, chiarissime nell’indicare chi era Matteo Messina Denaro, anche nel riferimento per l’omicidio di Paolo Borsellino a Marsala». Nei primi del ’92, Francesco Craparotta e Vincenzo D’Amico, capi della famiglia mafiosa di Marsala, furono uccisi - secondo quanto emerge da altri processi - per essersi rifiutati di uccidere il giudice Borsellino. Lo stesso movente avrebbe causato la morte di Vincenzo Milazzo, capo della famiglia di Alcamo, e la compagna Antonella Bonomo, uccisi il 14 luglio, a pochi giorni dalla Strage di via d’Amelio. Per questo - secondo la tesi accusatoria -don Ciccio Messina Denaro di Castelvetrano e Mariano Agate di Mazara del Vallo, che si erano alternati ai vertici della famiglia mafiosa di Trapani, avrebbero fatto un "morbido" passo indietro, per evitare fratture con Totò Riina, descritto dai pentiti come un despota alla ricerca di consensi. Così il figlio Matteo che all’epoca aveva trent’anni ed Enzo Sinacori, poi divenuto collaboratore di giustizia, avrebbero preso il posto dei due vecchi capimafia. Entrambi nel febbraio 1992, assieme ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, parteciparono alla cosiddetta "missione romana" in cui era prevista l’uccisione nella capitale del giudice Falcone, oltre che di alcuni giornalisti, tra cui Maurizio Costanzo. Un’operazione fallita che però dimostrerebbe la piena partecipazione alla "strategia stragista" del 1992.