PHOTO
Un minuscolo alito. La bava di ragno di 24 mila schede su 38 milioni di voti espressi. Solo alle tre del mattino di lunedì 10 aprile Francesco Rutelli, capo della Margherita, emana un sospiro di sollievo: l’Unione di Romano Prodi ce l’ha fatta, grazie a quell’alito ha battuto la Casa delle Libertà del premier uscente Silvio Berlusconi. Una vittoria che definire stentata è uno sfacciato eufemismo ma che tuttavia sta lì, in mezzo a grida belluine di brogli da parte del centrodestra e del pressing del presidente del Consiglio nei riguardi del ministro degli Interni, Beppe Pisanu, strattonato fin al punto di richiedere l’annullamento delle consultazioni. Il no di Pisanu ( e del Quirinale) segnerà una frattura col Cavaliere mai più ricomposta.
Ma non è notte solo di singole ripicche o personalistiche vendette. E’ un’intero Paese che trattiene il fiato mentre i giornalisti sembrano mosche impazzite e i Tg rimandano volti di cronisti che si allungano o si stringono a seconda della sede di partito in cui stazionano. I sondaggi preelettorali ci avevano messo del loro. Praticamente tutti davano l’Unione in testa di 5- 6 punti, e perfino gli exit poll rimandavano la stessa percezione. Poi però il conteggio dei voti squaderna una realtà diversa, con il centrodestra capace di rosicchiare lo svantaggio fino all’apoteosi del Senato: 200 mila voti in più. Scatta il panico. Sostanziato dal fatto che pure alla Camera il copione si stava ripetendo, con i sorrisi di Silvio e di Bossi sempre più massicci e la delusione che al contrario smagriva minuto dopo minuto il volto di Piero Fassino, leader dei Ds. Poi ecco la novità. Lo scrutinio nel centrosud, Campania in testa, rallenta fin quasi a fermarsi. E quando i dati finali affluiscono al Viminale, l’Unione si ritrova con in mano il premio di maggioranza alla Camera e perfino due seggi in più a palazzo Madama. Ventiquattomila voti che segnano un abisso, quello che discrimina la vittoria dalla sconfitta.
I giornali di tutto il mondo, italiani compresi, titolano «Paese ingovernabile» ( ricorda qualcosa?). Preso atto, seppur con notevole malmostosità, del risultato, Berlusconi fa la mossa del cavallo e offre a Prodi un accordo governativo di larghe intese ( ricorda qualcosa?). Il Professore, sdegnoso, rifiuta: è pronto a procedere con i senatori a vita e con il trotzkista Franco Turigliatto momentaneamente appostato dentro Rifondazione Comunista che stavolta fa parte della coalizione ( ricordate il 1998?). Turigliatto poi af- fonderà il governo e fonderà Sinistra Anticapitalista. Per la serie: era già tutto scritto.
Furono due anni appena, ma vissuti pericolosamente. Per i numeri ballerini. E per i continui sgambetti politici: tenere insieme il Guardasigilli Clemente Mastella e il titolare delle Politiche Sociali, il Prc Paolo Ferrero, con il cotè dei manifesti «Anche i ricchi piangano», era mission impossible. Eppure la legislatura prometteva bene. Era nata dopo il quinquiennio berlusconiano delle leggi ad personam, del logoramento da parte del subgoverno Fini- Casini, dei falò della Semplificazione del leghista Roberto Calderoli che bruciava pire di leggi inutili: inutilmente. E del Senatùr alle Riforme che inneggiava alle terapeutiche nonché palingenetiche virtù risanatrici del federalismo. Cinque anni combattuti nella giungla del codice di procedura penale “ambrosiano” per espugnare la casamatta del Tribunale di Milano. Alla fine sembrava che gli italiani non ne potessero più, che non aspettassero altro che il “ritorno di Prodi, la vendetta”. E infatti il Professore ci si era messo di buzzo buono. Voleva una coalizione stringente dopo lo shock del suo primo governo e perciò aveva messo tutti nel calderone per convolgerli e, magari, annullarli l’un l’altro. Il risultato era stato un aggregato di 15 sigle, e a provocare lo shock stavolta fu la foto- opportunity della delegazione al Quirinale per le consultazioni: una ventina e più di persone contro i 4 del centrodestra. Ne risentì anche la squadra di governo: 26 ministri più il premier; 10 viceministri e 66 sottosegretari. Per un totale di 103 membri; battuto il record di 100 presenze del settimo ( e ultimo) governo Andreotti. Pronti e via. Prodi giura il 17 maggio e neppure sessanta giorni dopo cominciano le grane. Si vota il rifinanziamento delle missioni militari e il governo deve ricorrere alla fiducia per debellare le resistenze della sinistra radicale. Sarà un continuo replay sulle montagne russe sul filo dei voti: nel frattempo Berlusconi ha “acquistato” l’Idv Sergio De Gregorio, presidente della Commisisone Difesa di palazzo Madama. Fino al 21 febbraio 2007 quando, sempre al Senato, arriva il botto e la risoluzione presentata da Anna Finocchiaro di approvazione della politica estera con particolare riferimento alla presenza italiana nelle forze NATO operanti in Afghanistan non raggiunge il quorum di maggioranza: 158 sì, 136 no e 24 astenuti, con quorum richiesto di 160. All’interno della maggioranza, non partecipano al voto i senatori Fernando Rossi e Franco Turigliatto. Fra i senatori a vita, tra i quali era assente Oscar Luigi Scalfaro, alcuni hanno votato a favore ( Emilio Colombo, Rita Levi- Montalcini, Carlo Azeglio Ciampi), uno ha votato contro ( Francesco Cossiga) e due si sono astenuti ( Giulio Andreotti, Sergio Pininfarina). A Prodi non resta che salire al Quirinale per dimettersi.
Giorgio Napolitano lo rimanda alla Camere. Il governo riottiene la fiducia del Senato con 162 sì e 157 no. Votato a favore i senatori a vita Emilio Colombo, Rita Levi- Montalcini, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, contro il senatore Francesco Cossiga; al momento del voto risultano assenti Giulio Andreotti e Sergio Pininfarina. De Gregorio nega la fiducia; Marco Follini, ex- segretario dell’UDC e leader del movimento politico Italia di Mezzo ( IdM, successivamente confluito nel Partito Democratico) compie il passaggio inverso e sostiene l’esecutivo, così come il senatore Luigi Pallaro, indipendente eletto nella circoscrizione estera America Meridionale.
Si va avanti, barcollando. Ma non saranno i dissesti politici, pur evidentissimi, a decretare la fine. Ci penserà la magistratura. Il 16 gennaio 2008 Clemente Mastella si dimette da ministro della Giustizia. Lui e la moglie risultano indagati per concussione dalla procura di Santa Maria Capua Vetere. L’Udeur assicura che continuerà a sostenere il governo ma pochi giorni dopo Mastella cambia idea «a causa della mancata solidarietà dell’esecutivo». Prodi grida al tradimento: stavolta la salita al Quirinale è per l’addio definitivo. Nove anni dopo, il 12 settembre 2017, Mastella e la moglie vengono prosciolti da tutte le accuse. Nel basket, quando un giocatore fa fallo alza il braccio per farsi identificare. In politica, non succede. Idem nella magistratura. Così nessuno saprà mai chi incolpare per la fine del secondo governo del Professore. Oppure no: il colpevole è evidente. Ma, come diceva Iacopo Badoer, «un bel tacer non fu mai scritto».