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La mediazione ritorna, ma ha cambiato pelle. Ne è convinto Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, che ha organizzato per domani un seminario con i rappresentanti delle professioni, tra i quali il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin, alcuni sindacalisti e le persone che più si sono occupate di intermediazione categoriale. Lo spunto è l’ultimo scritto di De Rita, Di ritorno dalla disintermediazione, nel quale il sociologo individua una società fatta di reti, filiere, piattaforme e tecnostrutture che serviranno a tenere insieme quello che definisce un “ecosistema molecolare”.
Professor De Rita, perché ha organizzato questo seminario? È un argomento che tocca un po’ tutti alla fine di un periodo nel quale la parte intermedia della società veniva distrutta: adesso che la spinta a disintermediare si è esaurita ci interessa confrontarci su quello che sta succedendo. Quello della disintermediazione è un processo storico che si ripresenta più o meno ciclicamente. Il primo è stato papa Wojtyla. Lui era un carismatico e non voleva avere nessuna intermediazione. Il suo carisma andava oltre partiti, sindacati, governi ed eserciti. Il suo cardinale di Stato raccontava che loro affacciandosi in Vaticano volevano vedere Castel Gandolfo, senza avere niente in mezzo, senza cioè dover passare per il vicariato, le parrocchie. Quando scatta un meccanismo o una tentazione di governo carismatico è evidente che si è in presenza di disintermediazione.
Lei ha parlato di papa Giovanni Paolo II e di carisma, i nostri politici sono altra cosa. Uno può pure pensare di avere il carisma, ma non è detto che poi ce l’abbia. Wojtyla ce l’aveva e l’ha esercitato fino in fondo. Altri, invece, pensano di averlo e siccome nella società c’è un bisogno di qualcuno che comandi la tentazione carismatica è sempre dietro l’angolo.
La disintermediazione in questi anni ha spazzato via partiti, enti intermedi e messo alle corde i sindacati: di chi è la colpa? Che ci sia una politica che ha voluto distruggere questa parte intermedia è vero, così come è evidente che ci siano delle colpe in chi è stato spazzato via. I partiti hanno perso la loro organizzazione originaria, trasformandosi solo in apparato con un segretario e un gruppo di potere e cancellando la partecipazione, le sezioni, il consiglio nazionale, il comitato centrale. In altre realtà, penso al sindacato, c’è stata una crisi ancora più profonda risalente alla fine del fordismo, passando per le grandi imprese e la classe operaia fino ad arrivare oggi ad aziende di piccole dimensioni e ai riders. E il sindacato non ce l’ha fatta a cambiare passo e si è arrivati, in alcuni casi, all’involgarimento dell’interesse privato e a una concrezione puramente corporativa. Tutti i corpi intermedi hanno delle colpe.
Tangentopoli ha avuto un ruolo sulla fine della intermediazione? Certamente. La mediazione è come l’acqua: sta dappertutto, ogni azione tra due persone presuppone una mediazione. Ovviamente quando arriva a dimensione di partito c’è di tutto: dalle nomine nei cda, alle elezioni politiche, alla ricerca delle risorse. Il vero problema di Mani pulite non è stata la rottura della vecchia mediazione, ma il tentativo di sostituirla con una nuova che non si faceva più per interesse, ma per convinzione, per comunicazione, per denigrazione. È cambiato, cioè, il modo di fare mediazione.
Però alcuni magistrati protagonisti di quella stagione, Di Pietro prima e Davigo da qualche anno, sono alcuni dei simboli nei quali una parte dei cittadini si riconosce. Di Pietro è ormai fuori dai giochi. Davigo sta diventando un elemento di coerenza intellettuale. Con Mani pulite c’è stato un cambiamento: si è passati da una valutazione tecnica della mediazione a una tendenza a dargli un valore morale. Oggi il vero problema per chi vuole entrare in politica è che la mediazione è stata sostituita da un ricatto morale che può arrivare dalla stampa, da un’indagine giudiziaria o dalla piazza. Il risultato è lo stesso: la denigrazione. L’inchiesta di Mani pulite è stata in un certo senso antesignana.
In questi anni si sono affacciati alla ribalta politica vari leader che hanno provato a fare a meno dei corpi intermedi. La loro azione, però, ha lasciato spesso macerie. Come se lo spiega? La mediazione è andata altrove. Le associazioni più attente a questo cambiamento hanno modificato e rimodulato la loro azione, non facendosi trascinare nella lotta alla disintermediazione, ma mettendosi in proprio. L’esempio classico che cito spesso è quello di Coldiretti.
In cosa è diversa Coldiretti? È un sindacato di filiera che difende i prodotti nazionali di alta qualità e non gli interessi di questo o quel personaggio. La filiera dell’agricoltura parte dal contadino e arriva allo chef stellato di Shanghai. Un percorso costruito senza seguire il vecchio schema della rappresentanza categoriale e senza il bisogno di denigrare nessuno. Coldiretti ha fatto quello che nel testo di cui parliamo ho sintetizzato: lavorare in rete, intercettare i nodi della rete, capire quali sono le componenti di una filiera. Se, invece, si ragiona con lo schema della vecchia rappresentanza di categoria non c’è futuro.
Come mai le altre organizzazioni sono rimaste indietro? Ci sono stati altri tentativi, come quello di R. ETE. Imprese Italia ( Casartigiani, Cna, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti ndr.), della quale sono presidente della Fondazione, che ha avuto la stessa intuizione di Coldiretti, ma hanno avuto delle difficoltà perché hanno dovuto organizzare una confederazione, mettere insieme i loro apparati, decidere a turno il presidente.
Confindustria invece… Confindustria è quella che soffre di più perché è la più vicina alla dimensione sindacale classica.
Lei, nel suo testo, dà un giudizio molto negativo dell’attuale classe dirigente e fotografa la situazione quasi come in una “nanomachia”. È evidente che alcune persone che hanno delle responsabilità sono dei nani rispetto alla complessità del problema che hanno di fronte. I nani si palesano nel momento in cui bisogna affrontare un problema. L’Italia bordeggia sui laghetti, non è in alto mare e sembra non accorgersi che i capitani dei vascelli non sono all’altezza. La sensazione è quella di avere una classe dirigente impreparata a ogni problema serio: pensa in piccolo, ma parla in grande. Una promessa generica, fatta in campagna elettorale, si trasforma in un elemento identitario da realizzare assolutamente.
In questi giorni il dibattito è focalizzato sulla prescrizione e sulla riforma del codice penale. E i venti di crisi si fanno sentire. La riforma del codice penale ha bisogno di una gestazione lunga, tavoli di confronto con giuristi di valore e con le categorie interessate. Dichiarare di puntare allo stop della prescrizione perché ha permesso a qualcuno di salvarsi dai processi è poca cosa. Non solo sei nano, ma hai messo il problema fuori dalla portata della gente che nana non è.
Le ultime elezioni in Emilia Romagna hanno portata alla ribalta le “Sardine”. Hanno qualcosa in comune con il Movimento 5Stelle? Apparentemente sono lontani. La cosa che li unisce è la genericità dell’approccio: siccome vanno in piazza devono utilizzare degli slogan per arrivare al popolo. Uno dei problemi, come evidenzio nel testo che sarà oggetto del seminario di domani, è la ricerca della mediazione della piazza. Chi la agita deve essere bravo a gestire il risultato. Nel rapporto con le “Sardine” c’è l’esigenza dei politici di capire fino a che punto possono consolidarsi e non restare piazza. Vale ancora la famosa intuizione di Alberoni: il movimento è uno Stato nascente. I grillini oggi non sono più movimento e non sono Stato nascente.
La Lega di Salvini, invece, ha una struttura organizzata, soprattutto sui territori. La Lega ha diverse componenti che concorrono al suo potere: governano tredici Regioni, hanno una vera classe dirigente con una cultura di governo, formatasi negli anni. Hanno anche una dimensione di movimento che Salvini lascia in funzione e che fa il gioco di contrapporsi alla classe dirigente. C’è poi la propensione di Salvini alla leadership, ma negli ultimi mesi sta diventando meno impressivo, utilizzando anche meno felpe. A lungo andare la rabbia contro gli immigrati non può essere la bandiera politica complessiva. Certamente c’è un carisma personale di Salvini che qualche volta, però, rischia di esaurirsi nei selfie con i suoi sostenitori. La sua esposizione continua, a lungo andare, rischia di stancare. Fino a oggi Salvini è stato un beneficiato del presenzialismo, ma rischia di diventarne vittima.
Un’altra vittima del presenzialismo è Matteo Renzi. L’ho conosciuto quando era presidente della Provincia di Firenze e mantengo una profonda stima nei suoi confronti: giovane, intelligente, sveglio e molto realista. Non l’ho più incontrato quando faceva il demolitore dei corpi intermedi: sapeva che era una strategia che non condividevo. È condizionato da una continua fuga in avanti. Alcune volte gli riesce, altre volte no. Però quando si ripetono troppe volte i propri giochi si evidenzia una debolezza congenita.
Nel rapporto del Censis 2019 sull’avvocatura, il 25% degli italiani pensa che la giustizia favorisca i ricchi, i privilegiati e gli spregiudicati. Questo dato è condizionato dai processi mediatici, da un giustizialismo approssimativo che ormai è dilagante? Riflette un’opinione generalizzata secondo la quale qualcuno sappia giocare con la giustizia e sia un furbetto. Da vent’anni a questa parte la fiducia nella giustizia è andata scemando. Prima i magistrati erano considerati il massimo del consesso sociale. Oggi non è più così.
Come giustifica la percezione negativa che, spesso, si ha del ruolo degli avvocati, sotto attacco anche sulla vicenda prescrizione? L’avvocato azzeccagarbugli è una figura manzoniana che è arrivata fino ai giorni nostri. L’avvocato interpreta la sua funzione alta di garante dello Stato di diritto, ma ha ben presente la tutela degli interessi del suo cliente e dell’ecosistema dei diritti e dei doveri. L’avvocato, quindi, è una figura molto complessa perché deve avere una cultura, spesso anche internazionale, e uno spessore umano di altissimo livello. Sarebbe opportuno cominciare a riflettere e confrontarsi su questi aspetti.