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Il taglio dei parlamentari e la parlamentarizzazione della crisi sono stati trasfigurati, in questi giornii, da temi importantissimi ad argomentazioni puramente opportunistiche
Il dibattito sulla crisi politica di questi giorni è l’ennesima prova di un male che va molto al di là delle sorti di un governo. La malattia è l’“opportunismo istituzionale”. L’abitudine ormai sfacciata di trattare i temi che riguardano il funzionamento e la riforma delle nostre istituzioni in un’ottica essenzialmente partigiana, legata alle convenienze politiche del momento. È già successo altre volte (referendum 2016 ad esempio), ma ogni volta si affonda ancora di più. Solo chi sia completamente ingenuo può pensare che lo scontro sui tempi e modi della riduzione dei parlamentari (così come quello sulla parlamentarizzazione della crisi) sia animato da preoccupazioni di tipo meramente istituzionale. Lo sanno anche i muri che ciò che è in gioco è uno scontro puramente e semplicemente politico tra chi vorrebbe elezioni subito e chi invece vorrebbe far durare la legislatura. Sia chiaro, lo scontro è assolutamente legittimo. Ciascuno in politica persegue i propri interessi e ne risponde di fronte ai propri elettori. Quello che preoccupa è che, per esorcizzare la natura politica del confitto, si chiamino in causa, opportunisticamente, appunto, argomenti che dovrebbero invece esprimere un interesse più generale, svincolato dalla contesa contingente. I tempi e i modi di una riforma come quella del taglio dei parlamentari o una procedura corretta per formalizzare la crisi di governo sono temi fondamentali e delicatissimi. Non a caso molte Costituzioni prevedono delle procedure formalizzate e precise proprio per evitare i cortocircuiti. Alcuni ordinamenti codificano con disposizioni formali o consuetudini consolidate le modalità per giungere allo scioglimento delle Camere (Germania, Spagna, Regno Unito, Grecia). Alcune Costituzioni prevedono, ad esempio, che ci sia un’elezione tra il momento della prima approvazione della riforma costituzionale e la sua entrata in vigore (Olanda, Finlandia, Grecia). In Italia, purtroppo nessuna delle due questioni è adeguatamente regolata in Costituzione (come si dice tecnicamente, la nostra forma di governo è poco “razionalizzata”) e il vuoto normativo consente un fiorire, anche tra i tecnici, di interpretazioni, più o meno fondate, ma certamente diverse e divaricate. L’opinione pubblica si trova di fronte a una grande confusione. Si fa fatica ad accettare che alcune questioni di tale importanza siano opinabili. Soprattutto quando lo scontro si svolge brandendo le opinioni come verità assolute. Così, nell’immediato si produce un unico risultato: incertezza e diffidenza verso politici ed esperti. La percezione diffusa è che gli argomenti costituzionali diventino prese di posizione partigiane. E non sapendo a chi credere, o non si crede a nessuno o si crede solo ai “propri”. L’intero sistema ne risulta delegittimato, con il rischio che, anche in questo caso, si alimenti la reazione antipolitica che trova il suo brodo di coltura proprio nell’incertezza e nella diffidenza. È la tempesta perfetta: l’opportunismo istituzionale delle forze politiche si salda con l’assenza di una grammatica comune tra quelli che dovrebbero essere gli interpreti qualificati della vita istituzionale. Come se ne esce? Astrattamente il senso di responsabilità dovrebbe condurre a sedersi a tavolino e innestare, mediante riforme adeguate, maggiori elementi di certezza. Ma siccome di tavoli e tavolini abbiamo ormai riempito i musei, quello che accade è esattamente il contrario: esasperazione di opportunismo istituzionale e di polarizzazioni interpretative sulle varie soluzioni possibili. I giornali pullulano di articoli e di interviste che dicono tutto e il contrario di tutto. Non c’è più una grammatica comune, ma un caos postmoderno che si mangia autorità e autorevolezza. Il tutto condito dall’insopportabile supponenza di molti che guardano chi dissente con lo scandalizzato disprezzo dei benpensanti. Certo, in questo coacervo c’è comunque un’istanza decisiva e finale, il Capo dello Stato. Ma anche gli interventi del Presidente della Repubblica non sono privi di rischi. In un contesto in cui prolifera incertezza e diffidenza, nessuno purtroppo è immune da critiche e contestazioni. Lo sgretolamento di una grammatica costituzionale condivisa rischia di travolgere tutto e tutti. Per questo la situazione è drammatica, ben al di là della sorte di un governo. Certo, ognuno può cercare il proprio capro espiatorio di comodo, gettando la colpa su questo o quel protagonista, ma sarebbe disonesto intellettualmente credere davvero che ci sia un singolo carnefice che tenta di divorare tutti gli innocenti. Voltafaccia, faziosità, trasformismo, uso di comodo degli argomenti, disinvoltura nel cambiare posizioni dall’oggi al domani, sono fenomeni diffusi e trasversali. E mentre ci si azzuffa rotolando nella polvere, non ci si accorge che, a furia di rotolare, si sta ormai arrivando al margine del burrone. E allora forse è il caso di smetterla con le guerre di religione e di trovare un accordo di metodo su come si vuol procedere. Si ritiene opportuno parlamentarizzare la crisi? Ma allora si arrivi fino in fondo e si faccia votare (senza le dimissioni del minuto prima) la mozione di sfiducia, che quella crisi formalizza di fronte al Paese (come coraggiosamente fece Prodi, primo tra i Presidenti del Consiglio nella storia repubblicana). Si ritiene che non sia opportuno sciogliere le Camere prima dell’approvazione referendaria della riduzione dei parlamentari? Bene, allora si riformi subito. Ma subito. E non si parli di governi di legislatura (perché se la riforma delegittimerebbe un Parlamento eletto nella composizione attuale, altrettanto delegittimato sarebbe il Parlamento di oggi dopo l’approvazione della riforma). E soprattutto non ci si inventi stiracchiati automatismi per cui, ridotti i parlamentari, si deve anche approvare una legge elettorale nuova, possibilmente proporzionale, o, che so, ristrutturare gli uffici delle Camere per adeguarli architettonicamente alla nuova composizione. L’opportunismo istituzionale è una malattia pericolosa, alimenta la sfiducia antipolitica e può generare mostri. Come si dice nel linguaggio giovanile dei social, #sapevamolo.