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FRANCESCO PETRELLI PRESIDENTE UCPI
L’Apertura voluta da Papa Francesco della Porta Santa nel carcere di romano di Rebibbia ha uno straordinario significato simbolico. L’invito a “spalancare le porte del cuore alla speranza” suona come un rimprovero netto e chiaro a chi di fronte alla tragedia delle carceri dichiara la propria indifferenza. Mentre, infatti, il governo continua a rimarcare la propria volontà di negare ogni possibile soluzione clemenziale e a voler imporre al Paese una visione securitaria e carcerocentrica, questo gesto esemplare apre all’idea della speranza come chiave di ogni possibile politica. Se all’origine del numero spaventoso di ottantanove suicidi, che segna il drammatico conteggio dell’anno che finisce, è la disperazione come mancanza di ogni possibile prospettiva di vita, la Porta di Rebibbia apre invece a quella alternativa. Ci dice che esiste ancora una possibile alternativa al buio della sofferenza della pena. Dietro l’idea securitaria e carcerocentrica di chi continua a negare ogni possibile misura deflattiva, vi è l’idea della condanna, non solo alla pena detentiva e alla perdita della libertà che essa comporta, ma anche della condanna alla perdita della speranza e della dignità.
Quella porta è un unicum nella storia della cristianità anche perché mette simbolicamente in contatto la comunità dei reclusi con quella dei liberi, apre alla relazione fra il carcere e la città. Una apertura che viene dalla nostra cultura corrente, al contrario, negata. E non si tratta di una negazione che nasce dall’indifferenza ma da una ridicola presunzione, diffusa fra i più, di essere, senza dubbio alcuno e senza tentennamenti, dalla parte del bene. Un bene “chiuso” e “duro” che rinnega ogni debolezza ed ogni possibilità di errore. Il carcere, in questa prospettiva, viene visto come un luogo da rimuovere e la vita carceraria come una parte di esistenza indegna che deve essere “oscurata”. Una visione “chiusa e dura” che serve a costruire l’inutile menzogna secondo cui il male è chiuso dietro quelle mura e che la durezza della pena serve a tutelare il bene che è tutto e solo fuori da esse. Il male e il carcere in esso rinchiuso non appartengono alle città.
In una delle molteplici iniziative promosse dalle Camere penali durante questo mese a favore dell’amnistia vi è stata a Udine una marcia contro la “vergogna civile” dei suicidi e del sovraffollamento del carcere cittadino di via Spalato, dove il numero dei detenuti è il doppio dei posti disponibili. Apriva il corteo uno striscione con su scritto “via Spalato è della città”, proprio a ricordare a tutti i cittadini che il carcere è parte viva della comunità e dove fallisce il carcere fallisce anche quella società che è incapace di dialogare con il problema della devianza, dell’illegalità e del suo recupero. I destini delle carceri e quelli delle loro città sono inevitabilmente legati.
Davanti al bivio della civiltà o della disperazione, ogni comunità deve fare la sua scelta. Mai messaggio è stato più chiaro e più puntuale. Ed è per questo motivo che la forza simbolica della Porta che a Rebibbia si apre con speranza alla città ha un significato universale che non dobbiamo lasciar passare invano.