Immaginate la scena: un magistrato – sedicente emblema della terzietà, sacerdote austero del diritto – che si alza durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario sfoggiando una maglietta di protesta. Non un abito talare, non un silenzio reverenziale, ma una t-shirt, magari con su scritto: “Giù le mani dalle toghe”. E, visto che ci siete, immaginate anche che quel magistrato, anziché limitarsi al ruolo istituzionale, decida di trasformare quel momento così solenne in una sorta di assemblea studentesca.

Insomma, una baracconata (lorsignori ci consentano) mascherata da “resistenza” istituzionale. Questo è il quadro, salvo smentite o ripensamenti, delle iniziative che avrebbe in mente l’Anm per protestare contro la separazione delle carriere. Una battaglia tutta simbolica, una guerra santa ingaggiata per difendere il baluardo del potere giudiziario.

E sia chiaro: non siamo di fronte a una protesta qualsiasi, ma a un gesto che sfiora il limite dell’oltraggio istituzionale. Anche perché la separazione delle carriere non è un capriccio del governo, ma una riforma indispensabile e, incidentalmente, discussa dal Parlamento. Sapete? Quel luogo dove viene espressa la volontà del popolo sovrano…

Senza contare che, come ha ricordato il professor Oliverio Mazza, la separazione è consustanziale al modello accusatorio su cui si fonda il nostro processo penale dal 1988. Ma no, le toghe resistono. Come disse Giuliano Vassalli – che, bisogna dirlo, aveva visto lontano – «quello che la magistratura ha conquistato, non lo molla più». E infatti eccoci qui.

E, tanto per non farsi mancare nulla, c’è pure chi si ostina a gridare al rischio di un pubblico ministero “subordinato all’esecutivo”, ignorando gli argini insuperabili fissati dalla Costituzione. Articolo 104: la magistratura è un ordine autonomo e indipendente. Argini che non sono mai stati messi in discussione.

E ora torniamo a Vassalli, torniamo all’87, quando il Financial Times raccolse le parole del guardasigilli che cambiò i connotati della giustizia italiana: «Non possiamo parlare di sistema accusatorio – disse l’allora ministro della Giustizia – laddove il pubblico ministero è un magistrato uguale al giudice, colleghi della stessa carriera». Parole che oggi pesano come macigni, soprattutto mentre osserviamo un potere giudiziario che lotta con le unghie e con i denti per mantenere questa ambiguità di funzioni.

Vassalli, da pragmatico, si accontentò di una separazione funzionale nel processo. Una toppa, un compromesso, un “vediamo come va”. Beh, non è andata bene. Oggi, quel sistema accusatorio è rimasto sulla carta, mentre il potere giudiziario ha rafforzato il suo ruolo, divenendo ciò che Vassalli definiva «il più grande gruppo di pressione mai conosciuto in Italia». Non male per chi dovrebbe essere soggetto solo alla legge.

E così, oggi, l’Anm non si limita a opporsi nelle sedi istituzionali. No, si prepara a trasformare le inaugurazioni dell’anno giudiziario in una ribalta politica. Magliette con slogan, uscite plateali, scioperi. Una messa in scena che rischia di svilire uno dei momenti più alti della nostra democrazia, in cui la giurisdizione celebra se stessa come caposaldo dei diritti.

Vassalli, sempre lui, con il suo pragmatismo amaro, aveva già previsto tutto. Ricordate? «La magistratura è un corpo corporativo che non molla ciò che ha conquistato». Le sue parole suonano come un monito. Ma il punto è che la separazione delle carriere non è una minaccia per la giustizia, ma una sua necessità. È un adeguamento naturale a un sistema che, senza questa riforma, rimane zoppo.

Ora le toghe sono a un bivio: possono continuare a “resistere”, rischiando di perdere quel residuo di credibilità che ancora conservano agli occhi dell’opinione pubblica. Oppure possono accettare il cambiamento, discutere con serenità su una riforma che non le sminuisce, ma le riporta al loro ruolo naturale. Perché la separazione delle carriere non è una provocazione: è la chiave per un processo penale veramente garantista. Un processo in cui chi accusa non può essere collega di chi giudica. Un processo che, per dirla con Vassalli, smetta di essere una “truffa delle etichette”.