Nel leggere l’intervento del dottor Pietro Grasso sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere, sembra che i concetti di separazione delle funzioni e delle carriere, il concetto stesso di terzietà del giudice, stentino a farsi strada nella discussione senza subire l’oltraggio del travisamento.

Si può infatti restare legittimamente fedeli alle proprie opinioni, ma è tuttavia necessario che tali opinioni muovano almeno da presupposti concettualmente esatti. Scrive il dottor Grasso che la riforma sarebbe “ipocrita” perché si vorrebbe impedire un passaggio da una funzione all’altra che nei fatti è già ridotta allo 0,2%, non comprendendo con ciò che la terzietà del giudice, così come è scritta nell’articolo 111 della Costituzione, non significa distinzione delle funzioni, effettivamente già in atto, ma separazione nell’esercizio di quei poteri (valutazione professionale, nomine e disciplina) che attualmente accomunano inammissibilmente i controllori (i giudici) e i controllati (i pubblici ministeri) all’interno di un’unica indistinta organizzazione.

Ipocrita è l’attuale assetto processuale e ordinamentale, e miope la prospettiva di chi continua a confondere questi due piani senza invece dare risposta a quell’ineludibile quesito di come possa mai l’arbitro indossare la maglia e frequentare lo spogliatoio di una delle due squadre in campo. Inutile sperare di poter restituire legittimazione e credibilità alla giurisdizione se non si scioglie questa evidente anomalia. Occorre poi un sano irrealismo per affermare che la fantomatica “Repubblica dei pm” non potrebbe neppure esistere in quanto “nel sistema accusatorio il pm è sotto il pieno controllo del giudice”. Se è vero, infatti, che in un sistema accusatorio sequestri, intercettazioni e catture dovrebbero essere oggetto di severo controllo, di autorizzazione o di autonomi provvedimenti da parte del giudice, è anche vero che nei sistemi accusatori di tutto l’Occidente, giudici e pm hanno carriere separate. E sappiamo bene come, proprio nella fase delicatissima delle indagini preliminari, la conseguente carenza della “terzietà”, nella ultratrentennale esperienza giudiziaria del nostro Paese, si faccia sentire in tutta la sua drammatica estensione.

È infatti proprio in quel fondamentale passaggio processuale, destinato a incidere nella carne viva dei diritti della persona, che la vicinanza ordinamentale del “controllato” e del “controllore” fa sentire i suoi effetti ai danni dei diritti e delle garanzie del cittadino, mandando in sofferenza gli interi equilibri processuali.

Il problema è dunque proprio quello di rafforzare la figura del giudice, di renderlo effettivamente terzo, portatore di una nuova cultura del limite, scrutinatore attento e severo dell’azione del pubblico ministero e tutore delle garanzie dell’indagato. Se questo è vero non si comprende in che modo quello stesso pubblico ministero, controllato da un giudice terzo, dunque certamente più forte, più autonomo e più indipendente di quello attuale, dovrebbe mai vedere accresciuto, a codice invariato, il proprio potere all’interno del processo e della società. Come se oggi, proprio a causa dello squilibrio che la riforma intende correggere, il pubblico ministero non godesse già di una vasta egemonia e di una documentata visione agonistica del processo, che solo un riequilibrio ordinamentale, quale quello proposto dalla attuale riforma, potrà efficacemente contrastare. Resta da toccare un ultimo punto non del tutto marginale della requisitoria del dottor Grasso, quanto ai costi della riforma.

Non so quali siano i criteri ed i parametri utilizzati dal senatore Gasso nelle sue valutazioni economiche, ma suggerirei di porli comunque a confronto con la somma di 27 milioni e 378 mila euro. Sono i soldi spesi dallo Stato solo nel 2022 per indennizzare le ingiuste detenzioni dei cittadini italiani privati immotivatamente della loro libertà personale. Forse il nuovo Csm dei pubblici ministeri costerà qualcosa in meno.