Il 27 febbraio scorso i magistrati (non tutti, per la verità) hanno “scioperato” contro la riforma costituzionale della separazione delle carriere. A sostegno della protesta, l’Associazione di categoria ha parlato di «riforma contro i magistrati», di «pm sottomesso» all’esecutivo, di «difesa della Costituzione», per citare alcuni slogan.

È davvero così? Davvero i timori manifestati dalla magistratura associata sono fondati e giustificati da solide basi argomentative? O ci si trova, invece, al cospetto di una resistenza debole, che nasconde il reale obiettivo del dissenso, vale a dire la difesa corporativa di assetti di potere regolati dal peso delle correnti, i cui guasti sono ancora scolpiti sulle pareti dell’Hotel Champagne?

Va detto senza ipocrisie: la posizione assunta da Anm è edificata sulle (sole) sabbie mobili della suggestione. Non un argomento capace di superare la prova di resistenza rispetto alle ragioni del sì. Non è vero, infatti, che la riforma: i) stravolgerà l’attuale assetto costituzionale e l’equilibrio tra i poteri dello Stato; ii) sottrarrà spazi di indipendenza alla giurisdizione; iii) ridurrà le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini; iv) determinerà l’isolamento del pubblico ministero, mortificandone la funzione di garanzia e abbandonandolo ad una logica securitaria; v) porrà le premesse per il concreto rischio del suo assoggettamento al potere esecutivo. È vero l’esatto contrario.

La riforma costituzionale ha il merito indiscusso di rafforzare il modello accusatorio, la presunzione di innocenza e il giusto processo, completando il percorso di ammodernamento del nostro sistema processuale iniziato nel 1988 e irrobustito nel 1999, riposizionando al centro della giurisdizione, come dovrebbe essere, il giudice.

Vediamolo in dettaglio.

  1. Le carriere unificate sono tipiche dei sistemi inquisitori; tutte le democrazie occidentali adottano modelli processuali di stampo accusatorio e carriere separate (eccetto Turchia e Bulgaria: vorrà dire qualcosa?). Come ricordava Franco Cordero «il pm non è un giudice. Un solo corpo è l’eredità del processo fascista».
  2. La separazione delle carriere realizza il giusto processo, nel rispetto della Costituzione, che esige un giudice terzo e imparziale davanti a parti poste in condizioni di parità. Un pm interno alla magistratura, intesa come corpo unico, è oggettivamente incompatibile con la fisionomia della parità delle parti. Lo aveva ben compreso Giovanni Falcone quando scrisse che il pm non deve avere «nessuna parentela» con il giudice. La terzietà e l’imparzialità non garantiscono l’adozione di sentenze “giuste”, ma ne costituiscono uno dei presupposti. Al pari della parità delle parti.
  3. L’art. 104 ( nel testo di riforma) non toccherà affatto l’autonomia e l’indipendenza del pm: continuerà ad accedere alla professione per concorso; non muteranno le norme sulla progressione di carriera; sarà garantito dalle norme sull’ordinamento giudiziario, dal suo Csm, e da un giudice disciplinare autonomo (l’Alta Corte, formata per 3/ 5 da magistrati). Una riforma “chirurgica”, allora, disegnata nel pieno rispetto dell’architettura costituzionale e del principio della separazione dei poteri.
  4. Sulla cultura della giurisdizione. Premesso che lo ius dicere è materia esclusiva del giudice e che la visione “paternalistica” del pm, inteso quale “para- giudice”, è estranea alla fisionomia del codice accusatorio, va empiricamente osservato come, a carriere unificate, non è stato il giudice ad aver attirato il pm nella sua sfera culturale (con tutte le garanzie che la corredano), ma è il pm ad aver contaminato il giudice da quel pregiudizio che un soggetto terzo e imparziale (questo dice la Costituzione) non dovrebbe mai avere. È il pm ad aver assunto “super poteri” e centralità nella giurisdizione, sbilanciando la terzietà del giudice. Nella prassi quotidiana le parti non operano in condizioni di parità. E nella percezione sociale non conta il giudice, ma il pm, non la sentenza, ma l’arresto. Non è la sentenza a stabilire il risultato di giustizia agli occhi del cittadino. Anzi, la sentenza, se di assoluzione o ritenuta non esemplare nella pena, è percepita come denegata giustizia. Ecco perché i giudici, con la Costituzione in mano, dovrebbero essere i primi a salutare con favore questa riforma, che punta a un recupero culturale, prima di tutto, nel rispetto del modello accusatorio che «vuole un giudice più forte e più lontano dal pubblico ministero» (Zanon).
  5. Nel giusto processo triadico, come ricordava Giuliano Vassalli, la separazione funzionale, imposta dal modello accusatorio, e quella ordinamentale delle carriere sono vasi comunicanti: la prima non può essere effettiva senza la seconda. In una recente intervista, Paulo Pinto de Albuquerque ha definito, la nostra, una riforma eccellente, che rafforzerà il modello accusatorio, la presunzione di innocenza e il giusto processo.

La storia giudicherà questa battaglia e gli schieramenti in campo. Se vogliamo davvero onorare la Costituzione e attuarla, dobbiamo promuovere culturalmente e socialmente la grammatica del giusto processo, rafforzare il modello accusatorio e la presunzione di innocenza.

In questa direzione si muove la riforma in cantiere. In questa direzione dovremmo muoverci anche noi, se teniamo al progresso della civiltà del diritto, alla tutela dei diritti e delle libertà dell’individuo e al consolidamento degli edifici portanti sui quali è edificata la nostra democrazia.