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Marco Perpiglia
Il 18 giugno del 1959 la questura di Reggio Calabria inviava al ministero dell’Interno una riservata sul falegname Marco Perpiglia, ritenuto “pericoloso per l’ordinamento democratico dello Stato”, ribadendo che “… il Perpiglia è tutt’ora da considerarsi elemento pericoloso, perché mantiene le proprie idee delle quali continua a fare propaganda”.
Le “idee pericolose” di cui parla la questura di Reggio Calabria sono quelle che hanno portato Marco Perpiglia di Roccaforte del Greco (RC) ad aderire giovanissimo al Partito comunista e poi a combattere la guerra di Spagna.
Dopo la presa di Madrid, da parte dei franchisti, è stato costretto a cercare la salvezza in Francia dove venne arrestato dai gendarmi di Vichy in quanto appartenente alle Brigate internazionali e internato nei campi di concentramento dove soffre terribilmente la fame. Successivamente viene consegnato all’Italia e, a Savona, sottoposto al giudizio di una commissione che lo condanna a cinque anni di confino a Ventotene per aver combattuto nelle “Brigate internazionali”.
Nell’isola visse a stretto contatto con tutti gli antifascisti confinati finché, recuperata la libertà dopo il 25 luglio, si reca in Liguria per combattere nella brigata partigiana “Cento Croci”, con il ruolo di commissario politico, fino al giorno della Liberazione nazionale.
Voglio sottolineare un dato: la commissione che confinò Perpiglia a Ventotene era composta dal prefetto, dal questore, del procuratore del re e dal comandante della legione dei carabinieri. Insomma da quella parte dello “Stato profondo” sopravvissuta senza alcun danno al fascismo e che nel 1959 era già in marcia per recuperare il potere perduto. La riservata del questore del 1959 ne è una dimostrazione.
I Costituente, molti dei quali avevano conosciuto galere e galeotti, hanno fatto il possibile e anche l’impossibile per impedire che dall’interno dello Stato si potesse mettere in pericolo la democrazia e le libertà individuale. Non hanno fatto i conti con le “emergenze”, alcune volte vere ma il più delle volte create ad arte.
Nel 1959 è “emergenza” perché c'è il “pericolo comunista” e quindi un questore di Reggio Calabria ritiene del tutto normale mettere sotto sorveglianza e inviare una riservata su un cittadino colpevole solo per le sue idee.
C’è una costante nella nostra storia: i governi cambiano ma la parte più consistente del potere resta nelle mani di coloro che lo hanno sempre avuto. E tanto più la politica si indebolisce tanto più avanzano i poteri non elettivi e molto spesso non democratici.
Oggi c’è l’emergenza economica ed è stata sfruttata per dilatare il potere di tecnici, banchieri e manager, mentre è soprattutto l'“emergenza mafia” che viene utilizzata per dare i pieni poteri ai Pm (non più del re ma della Repubblica), ai prefetti, ai questori, agli alti gradi militari. Emergenza, molto spesso, creata ad arte per poter giustificare il mancato rispetto delle leggi.
Chi vive in alcune regioni, soprattutto nel Sud sa bene che un abile procuratore della Repubblica capace di muovere i tasti giusti, conta più di cento presidenti di Regione regolarmente eletti e più di una decina di parlamentari.
Senza esagerazione alcuna, si vive in un costante clima golpista con potere di intimidazione e minaccia. Come altro si potrebbe definire una emergenza creata ad arte per poter tenere per anni in carcere una persona senza una sentenza, per poter arrestare cento cittadini che poi risulteranno regolarmente innocenti, per poter rovinare una azienda senza processo, sciogliere un consiglio comunale senza ragione alcuna, vietare un funerale pur in assenza di pericoli.
Si potrebbe osservare: ci sono i tribunali, ci sono vari gradi di giudizio, c’è la Costituzione. Esattamente come nel 1959 quando, utilizzando il “pericolo comunista”, venivano ignorate le garanzie previste per tutti i cittadini in uno Stato di diritto.
Ma il pericolo oggi è molto maggiore rispetto al 1959: manca la vigilanza democratica, manca la “Sinistra, mancano i liberali ed i tanti cattolici sensibili alla difesa della Costituzione. V’è un sistema di informazione schiacciato sui poteri antidemocratici.
Lo svolgimento del congresso del Partito democratico è la prova di quanto in quel partito contino poco valori come il rispetto dell’integrità della persona umana, la libertà, la Costituzione. Eppure il Partito democratico ha radici in uomini come Marco Perpiglia ma il suo gruppo dirigente è ostaggio di quella parte dello Stato che lavora alacremente per riportare il potere nelle proprie mani.
Esiste nel Pd un gruppo dirigente che è oggettivamente contro il suo popolo in nome del binomio “legge e ordine”. Parole che, se decontestualizzate rispetto alla Costituzione, assumono il sapore di ottusa conservazione di un ordine ingiusto.
L’ex ministro della Giustizia Orlando che nel 2017 fa approvare, con voto di fiducia, una legge illiberale ne è la dimostrazione così come lo è l’ex presidentessa della commissione parlamentare antimafia, sempre del Pd, che dopo aver chiesto e ottenuto i voti dei calabresi riceveva i sindaci nelle caserme dei carabinieri e si recava a Polsi in elicottero senza incontrare la gente dei paesi dell’Aspromonte che avrebbe dovuto rappresentare in Parlamento.
Nulla di illegale. Ma quanta pena anche in memoria dei tanti come Marco Perpiglia.