Il tema è delicato. In questi ultimi tempi si sono lette riflessioni di diverso genere per lo più orientate a ritenere che con la separazione delle carriere verosimilmente cambierà la capacità del pubblico ministero di controllare la polizia giudiziaria. In altri termini e da altri punti di vista: con lo scollamento dell’accusa dalla magistratura giudicante, taluni ritengono che la Procura potrebbe esser vista come più vicina all’Esecutivo (che, a seconda dei dicasteri, dirige le forze in uso alla polizia giudiziaria) attesa l’influenza che gli investigatori hanno sulla conduzione dei fascicoli. Addirittura verrebbe affermato che si renderà necessario – per fugare dubbi di controllo governativo sugli inquirenti – sottrarre la Pg alla direzione del pm. La questione, però, non è nuova. Cerchiamo di fare chiarezza.

La polizia giudiziaria è tradizionalmente ricompresa nel novero degli ausiliari del pubblico ministero, e nel codice di rito è collocata nel libro I, titolo III, dedicato ai “Soggetti”. Il legislatore ha inteso escludere la formazione di un corpo di polizia giudiziaria alle dirette dipendenze del pm, attribuendogli una posizione istituzionale che porta una chiara differenziazione dei suoi organi dagli uffici inquirenti, e presuppone un’inequivoca attribuzione di funzioni autonome. Tale scelta evidenzia il ruolo di particolare rilievo attribuito alla Pg nella fase delle indagini preliminari (si pensi proprio alle numerose funzioni autonome, oltre a quella delegata o indirizzata che, come si sa, consiste in un istruzione impartita dal pm con la quale si fissa l’obiettivo dell’indagine, ma si lascia – in ragione dell’indipendenza – indeterminata l’attività operativa da svolgere per perseguirlo), delineato attentamente nell’articolo 55 del codice di procedura penale.

Un dato è certo: la polizia giudiziaria è titolare di una discrezionalità tecnica in relazione alla scelta dei mezzi e delle investigazioni più idonei al perseguimento degli scopi di indagine indicati dal pubblico ministero. Tale discrezionalità tecnica distingue l’attività svolta su direttiva d’indirizzo – o guidata – dall’attività svolta su specifica delega, detta appunto delegata.

Solo qualora le indagini conducano all’acquisizione di una notizia di reato, la polizia giudiziaria ha il dovere (sanzionato in caso di omissioni) di cristallizzare la stessa in una apposita informativa (Cnr) e di comunicarla al pubblico ministero secondo modalità e tempi previsti dall’articolo 347 c. p. p.. Si può parlare, quindi, di una dipendenza funzionale non strettamente gerarchica della polizia giudiziaria dalla magistratura inquirente, prevista al solo fine di dare stabilità all’attività d’indagine, oltre che per rendere concreto il coordinamento tra organi nella fase delle indagini preliminari.

Questo è il punto di partenza, oggetto di compromesso sul piano giuridico, concepito per conferire più garanzie all’intero sistema. Proprio nello spirito della più stretta collaborazione con la polizia giudiziaria, il pubblico ministero si impegna direttamente nell’attività investigativa, dando le opportune direttive, ma soprattutto operando personalmente perché siano compiuti quegli atti che gli consentano di presentare al giudice le proprie richieste, tanto a carico quanto a discarico dell’interessato.

La genesi della questione è risalente: il codice Rocco, infatti, affidava al pm il ruolo di funzione pubblica, e la facoltà di acquisire le notizie di reato, di propria iniziativa, era attribuita solo alla polizia giudiziaria.

Nel 1988 è stato introdotto, in relazione alla fase investigativa, una significativa novità rispetto al processo penale preesistente, riconoscendo espressamente tale potere al pubblico ministero, con un tanto sofisticato quanto semplice di equilibrio: gli atti compiuti dal magistrato del pubblico ministero sono fonti di prova, da cui possono scaturire dati che, soltanto al momento della loro assunzione nel contraddittorio delle parti in sede di giudizio, assurgeranno al rango di prove.

Non sono mancati, nell’ultimo trentennio, progetti di riforma per allontanare ovvero avvicinare la Pg al pm: ad esempio la commissione ministeriale presieduta dal professor Andrea Antonio Dalia prevedeva, nel quadro di un generale ampliamento dell’autonomia investigativa della polizia giudiziaria e di un conseguente ridimensionamento delle funzioni del pubblico ministero, l’abolizione del potere del magistrato inquirente di ricercare le notizie di reato e l’attribuzione di tale attività, in via esclusiva, alla polizia giudiziaria (come nel codice di rito previgente). E ancora, all’opposto, la commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura penale presieduta dal professor Giuseppe Riccio affidava la responsabilità delle indagini preliminari all’accusa.

Si colloca in un’ottica ancora diversa il disegno di legge n. 1440\\ S del 2009, che prevedeva di sottrarre al pubblico ministero il potere di ricercare notizie di reato.

La riforma Nordio, nella sua organicità, è un passo epocale perché mira a separare la carriera del pm da quella del giudice: la conseguente attribuzione della funzione investigativa a un ruolo distinto dall’Ufficio di Procura pare però idea lontana dall’assetto della riforma, a meno che non si voglia fare un passo indietro e tornare a un sistema che ingenerava problemi operativi (e per certi versi equivoci) non di poco conto. Forse, sarebbe più razionale lavorare sul concetto di “vigilanza” del pm sull’attività della Pg o, ancor meglio, sull’obbligatorietà dell’azione penale, più che erodere funzioni e cooperazioni già collaudate, oggetto di tentativi di riforma tutti allo stato naufragati probabilmente perché inattuabili.