Nelle aule di giustizia, il “ragionevole dubbio” non è solo un’espressione suggestiva, ma una bussola imprescindibile che orienta il giudizio penale. La VI Sezione della Cassazione, con una recente pronuncia, torna ad approfondire e chiarire i confini di questa regola cardine, sottolineando come essa costituisca il vero discrimine tra condanna e assoluzione.

La Suprema Corte, richiamando consolidati arresti giurisprudenziali, ha precisato che la regola dell’art. 533 c. p. p. consente la pronuncia di una sentenza di condanna solo quando la prova raccolta esclude tutte le ricostruzioni alternative, salvo quelle che, pur astrattamente prospettabili, si configurano come mere eventualità remote e prive di riscontri fattuali. Si tratta di quelle ipotesi che si collocano “al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana” ( Cass. pen., Sez. 3, n. 5602/ 2021; Sez. 5, n. 1282/ 2019; Sez. 1, n. 17921/ 2010).

Le stesse Sezioni Unite, nella celebre sentenza Troise ( Cass. pen., Sez. U, n. 14800/ 2018), hanno ulteriormente rafforzato questo approccio, sottolineando come il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio non sia un mero standard probatorio, ma un vero e proprio metodo di accertamento. Esso, infatti, impone al giudice di confrontare la tesi accusatoria prospettata dal pubblico ministero con le ricostruzioni antagoniste offerte dalla difesa, seguendo un “protocollo logico” che esclude scorciatoie valutative, quali la “consistente verosimiglianza” o la “forte plausibilità”. Il ragionevole dubbio, quindi, non è un concetto elastico da declinare secondo il libero apprezzamento dell’organo giudicante, ma rappresenta una vera e propria regola di giudizio vincolante che impone un rigore argomentativo e una valutazione completa di tutte le prove acquisite, comprese quelle offerte dalla difesa in chiave demolitoria dell’ipotesi accusatoria. La Cassazione ha sottolineato, anche nella recente sentenza Bagarella (Cass. pen., Sez. 6, n. 45506/ 2023), che la motivazione deve dar conto non solo degli elementi che confermano la tesi dell’accusa, ma anche delle ragioni per cui le ipotesi alternative, prospettate dalla difesa, non siano razionalmente sostenibili nel caso concreto.

Non può dunque ritenersi sufficiente un giudizio di prevalenza o una maggiore aderenza alla logica comune della tesi accusatoria: è necessaria una confutazione argomentata delle ricostruzioni difensive. In questa prospettiva, l’intento è quello di rafforzare l’onere motivazionale in capo al giudice, che non può limitarsi ad affermare che la ricostruzione alternativa è meno probabile, ma deve dimostrarne la radicale inattendibilità, escludendo che possa costituire fonte di dubbio processualmente rilevante (Cass. pen., Sez. 6, n. 10093/ 2019; Sez. 4, n. 22257/ 2014).

Inoltre, va ricordato che la presunzione di innocenza, da cui il principio del ragionevole dubbio discende direttamente, non è una mero orpello o una clausola di stile, ma rappresenta un fondamento costituzionale e convenzionale del processo penale, come si evince chiaramente dall’art. 27 Cost. e dall’art. 6 Cedu. Il suo rispetto si riflette nella struttura logica del giudizio e nella distribuzione dell’onere della prova, che resta saldamente in capo all’accusa fino alla prova di colpevolezza «oltre ogni ragionevole dubbio». Per l’avvocatura, questi principi non sono solo teoria, ma strumenti essenziali per adempiere a tutti gli oneri difensivi a cui si è sottoposti, non solo per dovere deontologico.

La capacità di articolare ricostruzioni alternative solide, ancorate alle emergenze processuali, può rappresentare una profonda differenza tra una sentenza di condanna e un’assoluzione. E soprattutto, riafferma il diritto della difesa ad una valutazione «legale, completa e razionale della prova», come espressione piena del contraddittorio. In un sistema penale che vuole dirsi garantista, il ragionevole dubbio non è un lusso o una facoltà opinabile, ma un presidio di civiltà giuridica.

Con questa ennesima sentenza la giurisprudenza di legittimità sembra voler ribadire, ancora una volta, che il processo penale non è terreno per intuizioni o suggestioni, ma per ragionamenti rigorosi e verifiche serrate. Perché, come ammoniva Calamandrei, «la giustizia non è un sentimento, ma una tecnica».