La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non può essere ridotta a una semplice questione tecnica. Non lo è mai stata né mai lo sarà. È piuttosto una linea Maginot, ovvero una trincea che le toghe difendono con rabbia e una buona dose di retorica. Come è mera retorica la storiella del pm che con questa riforma finirebbe sotto il controllo del potere politico. “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, recita l’articolo 104 della Costituzione; ed è scritto proprio in quel “libro” che i pm hanno sventolato polemicamente in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Evidentemente deve essergli sfuggito.

Il punto è che le toghe vivono questa riforma come una vera e propria profanazione del loro potere. Per questo si ribellano e chiamano i cittadini a “coorte”. Ma qualcosa è cambiato. Non siamo più nel 1992, non siamo più nell’era di Mani pulite, quando le Procure erano templi dell’etica pubblica e i magistrati cavalieri senza macchia. Oggi, l’aura di santità si è dissolta. Sulle stesse Procure che un tempo facevano tremare il Parlamento è calata l’ombra dell’Hotel Champagne, il sistema Palamara, gli scandali delle nomine. I cittadini, che allora vedevano nelle toghe i paladini della giustizia, oggi le guardano con il sospetto che riservano alla politica.

E, diciamolo chiaro, dietro le dichiarazioni solenni e la Costituzione brandita come fosse proprietà privata delle toghe e non la “casa” comune di tutti gli italiani, c’è una realtà più prosaica, c’è la difesa di un sistema di potere che governa carriere, orienta decisioni, condiziona il Parlamento.

La separazione delle carriere è un passo necessario per ristabilire il senso del giusto processo. “Investigatore è il pubblico ministero, arbitro è il giudice”, diceva Giovanni Falcone. Funzioni diverse, mondi separati. Ma ogni tentativo di mettere ordine viene vissuto come una catastrofe, uno smantellamento della giustizia. È la solita paura, la solita retorica. Ma la giustizia non è il pulpito di un sacerdote: è un servizio pubblico, e come tale deve essere trasparente, accessibile, credibile.

E poi ci sono i gesti. Come quello di Nicola Gratteri, che diserta l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un atto di rottura, certo. Ma anche un atto plateale, quasi teatrale. Un gesto che non serve alla giustizia, ma alla narrazione. Perché questa protesta non è solo istituzionale: è mediatica. È il frutto di una magistratura che, come ha detto il procuratore generale Luigi Salvato, rischia di confondere “la centralità della giurisdizione con l’avvento di una nuova etica pubblica”. Ma non è compito delle toghe combattere battaglie etiche, sventolare principi. Il loro compito è applicare la legge, punto e basta.

Per quel che ci riguarda, noi del Dubbio abbiamo una posizione chiara. Siamo convinti che questa riforma sia necessaria, ma siamo altrettanto convinti che il confronto sia indispensabile, soprattutto per migliorarla, correggerla, calzarla al meglio su un sistema giudiziario assai articolato. Per questo abbiamo ospitato e continueremo ad ospitare articoli e contributi di ogni genere e orientamento. Perché mai e poi mai potremmo tradire la nostra vocazione al “dubbio” e siamo fermamente convinti che il dialogo sia il cuore della democrazia. Ma il dialogo vero, non quello fatto di proclami e slogan.

La magistratura vuole opporsi a questa riforma? Bene, lo faccia. Ma lo faccia con argomenti, non con gesti teatrali e dichiarazioni apocalittiche. Troverà nel Dubbio, come ha sempre trovato, un giornale pronto ad ascoltare, a dar voce. Insomma, in questi mesi che si annunciano assai caldi, proveremo a fare quel che politica e magistratura non riescono a fare: ascoltare le ragioni di ognuno ma senza perdere la nostra identità, i nostri valori indissolubilmente legati a quelli dell’avvocatura.

Ecco il punto: questa riforma non deve diventare una resa dei conti, ma un’occasione per ridare alla giustizia credibilità, trasparenza, fiducia. E non vorremmo che fossero i cittadini a pagare il prezzo di questa guerra. La giustizia è già lenta, appesantita, soffocata da burocrazie spesso sibilline. Gli avvocati hanno già fatto sapere che saranno al loro posto, pronti a garantire il funzionamento della giurisdizione e il diritto dei cittadini di avere un “giusto processo”. Speriamo che lo siano anche i magistrati. Perché la giustizia non è un campo di battaglia ideologico: è un servizio, un diritto, un dovere. E questa semplice verità non può essere sacrificata sull’altare di una crociata.