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Accusare di collusioni con la mafia e il terrorismo chi, da Portella della Ginestra a Pio La Torre, Piersanti Mattarella ed Aldo Moro, ha nelle sue file decine e decine di vittime per mafia e terrorismo? Scherziamo? Ma perché i parlamentari del Partito democratico, ascoltate quelle accuse grottesche e infamanti pronunciate in Parlamento dal responsabile organizzativo di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli non hanno lasciato immediatamente l’Aula? Perché non hanno dato una pronta, tangibile, plastica risposta a quelle che sono, fattualmente e storicamente, delle pure e semplici falsità abbandonando l’emiciclo, segnalando così repentinamente alla pubblica opinione la gravità e lo scandalo di quanto accaduto?
La domanda non è peregrina, date anche le risultanze di un recentissimo sondaggio sulla questione, come vedremo.
Benissimo la richiesta di dimissioni di Donzelli, che è pure vicepresidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti e che nel suo intervento ha dato pubblicità in Aula a documenti riservati, cosa che non è consentita, e non è accettabile particolarmente proprio da chi nel Copasir riceve ed esamina quasi esclusivamente materiale top secret. Benissimo la richiesta di rimuovere da sottosegretario alla Giustizia chi ha ammesso di aver fornito a Donzelli accesso a quelle intercettazioni che la polizia penitenziaria svolge su mandato dell’autorità giudiziaria, e che finiscono al Dap di Via Arenula. Benissimo contestare in tribunale la diffamazione, e chiedere il Gran Giurì parlamentare. Benissimo tutto ciò che evidenzia quali gravi vulnus al corretto funzionamento istituzionale siano stati commessi, a cominciare dall’attacco sgangherato e insensato alle visite in carcere dei parlamentari, che sono notoriamente l’esercizio di un dovere secondo valori storicamente radicati nelle democrazie liberali (non pago di quanto messo in scena in Aula, davanti ai microfoni dei giornalisti Donzelli ha pure ribadito il concetto, «io, quando vado in carcere, vado a trovare le guardie»). Ma l’accusa al Pd di collusione con mafia e terrorismo non è solo infamante: è soprattutto una menzogna. E di proporzioni gigantesche. Accusare di stare con la mafia la parte politica che della mafia è stata storicamente vittima? Accusare di strizzare l’occhio ai terroristi gli eredi politici di chi per non cedere alle Brigate Rosse ha dovuto seppellire Aldo Moro? È talmente abnorme, l’inversione della realtà operata da Giovanni Donzelli alla Camera martedì 31 gennaio, da ricordare in farsa i metodi del Ventennio del secolo scorso, e spiace doverlo constatare.
Ma è talmente abnorme, nella perduta memoria collettiva della storia del Paese, che forse avrebbe meritato una reazione immediata e, come dire, sanguigna. Qualcosa che mostrasse subito alla pubblica opinione dove sta la ragione e dove il torto: uscire dall’Aula, e rientrare solo dopo pubbliche scuse. Anche perché per ristabilire la verità nell’era della messa in rete della società dello spettacolo, aver ragione in un tribunale o in un Gran Giurì, politicamente serve a poco. Il messaggio è già passato, ed è il risultato che con quell’intervento di stile diciannovista si voleva ottenere.
Giusto ieri la Stampa ha pubblicato un sondaggio della società Euromedia Research di Alessandra Ghisleri che rileva dati interessanti e, per quanto prevedibili, allarmanti: nonostante il 33,1 per cento degli intervistati ritenga vi sia stata una violazione di documenti riservati da parte di Donzelli ( ma il 35,7 dichiara di non sapere come valutare la cosa, o non risponde alla domanda), per il 27,2 a dimettersi dovrebbero essere i deputati del Pd citati da Donzelli, e ben il 42,2 ritiene che l’elemento più grave di tutta la vicenda sia gli incontri dei parlamentari con Cospito. Solo il 15,8 ritiene gravi le accuse alla sinistra.
Dunque, per stare a quel sondaggio, il messaggio che il partito di maggioranza relativa voleva dare alla pubblica opinione è stato perfettamente recepito. Gli obiettivi che il partito al governo ha per ora centrato non sono pochi. La vicenda dell’anarchico Cospito in sciopero della fame contro il 41 bis, caso che diventerebbe spinosissimo per Palazzo Chigi se il detenuto morisse - è diventato il caso della “fermezza” dello Stato contro il terrorismo.
Nel delirio generale, si è arrivati a far paragoni con la fermezza durante il sequestro Moro, come se le due situazioni fossero anche solo minimamente paragonabili: ma tutto questo forse aiuta a disinnescare preventivamente la reazione della pubblica opinione se poi Cospito morisse. E il dito, grazie all’inversione della realtà, viene puntato contro l’opposizione, che ha solo esercitato suoi doveri istituzionali. Al fine di rinserrare ranghi piuttosto sfrangiati, come altre varie vicende dimostrano, nel partito di governo. E pazienza - per così dire - se poi ci va di mezzo quell’istituto della democrazia liberale quali sono le visite in carcere dei parlamentari, e se la parte politica che vorrebbe limare l’uso delle intercettazioni finisce per darne pubblica lettura addirittura in Parlamento.