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Salvatore Buzzi è un criminale italiano. Dice così Wikipedia, e nella sua laconicità sembra non possa restare altro da dire. Eppure, d’essere «un criminale italiano», lo si potrebbe dire d’uno qualunque delle migliaia di detenuti, senza che la cosa faccia una piega. A Buzzi invece, Wikipedia resta stretto.
È il 29 giugno 1984. I giornaloni italiani parlano della sinistra socialista all’attacco ma senza dichiarare guerra a Craxi; di un’intervista dell’onorevole Tina Anselmi in cui parla delle trame della P2 che fanno pensare al fascismo; di mille miliardi stanziati in Parlamento per ristrutturare in cinque anni gli aeroporti di Fiumicino e della Malpensa; del giallo del Dams, a Bologna, in cui è stata orrendamente assassinata, un anno prima, Francesca Alinovi critica d’arte emergente; dell’ex cancelliere Helmut Schmidt, ritiratosi da mesi dall’attività politica, che ha preso la parola al Bundestag per presentare un suo progetto sull’Europa. Non parlano di carcere. Nessuno scrive di carcere.
«Le misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna». È il 29 giugno 1984, e questo è il titolo del convegno a Rebibbia. A ascoltare Salvatore Buzzi parlare del recupero di chi ha sbagliato ma non deve essere dimenticato ci sono sul palco il sindaco di Roma Ugo Vetere, il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e Nicolò Amato, direttore generale delle carceri. C’è lo Stato, insomma. In pompa magna.
Nacque così la cooperativa 29 giugno, che è poi la data da cui per loro tutto ebbe inizio. 29 giugno 1984. Quel fatidico convegno.
La prima cooperativa di detenuti in Italia ( e già Buzzi era stato il primo detenuto a laurearsi in cella: Lettere e filosofia, tesi su Vilfredo Pareto, 110 e lode). Un fiore all’occhiello, quella cooperativa, per l’amministrazione penitenziaria. Negli anni, centinaia di detenuti sono usciti dal carcere e hanno trovato forme di sussistenza e reinserimento per mezzo della cooperativa. La cooperativa che è stata al centro dell’indagine giudiziaria più comunemente nota come Mafia-Capitale.
Nacque facendo bottiglie di pomodoro da rivendere, e poi pulendo gli spazi di Rebibbia e poi allargandosi piano piano. Una gran mano gliela diede Angiolo Marroni, comunista, che allora era vicepresidente della Provincia e che si costruì il resto della carriera politica, e anche quella del figlio, Umberto, poi deputato Pd – i carcerati hanno un sacco di familiari da far votare – su quelle iniziative dei detenuti, fino a diventare il loro Garante per la Regione Lazio, vita natural durante. Ruolo centrale per la destinazione di congrui fondi. La cooperativa 29 giugno entrò a far parte della rete della Lega delle cooperative, quella dove imperò Poletti, ora ministro del Lavoro. Un fiore all’occhiello per la Lega.
Buzzi non viene dalla strada, non era un delinquentello di quartiere, anche se è nato alla Magliana, che ha imparato presto la dura legge della vita – mangia o sarai mangiato – e che è progressivamente cresciuto di rango e di reato. È figlio di una maestra e di un grande invalido: a vent’anni è già in banca a lavorare. È un mestiere d’oro, in quegli anni, il lavoro in banca: si guadagna tanto, rispetto i salari medi, un sogno. Ci facevano le canzoni, i nostri cantautori, per dire di come ci si potesse vendere l’anima, di come ci si potesse ridurre in mezzo a quel fiume di denaro. Ma per Buzzi le cose non sono esattamente così: in quel tenore di vita ci sguazza, anzi prova a accrescerlo con qualche “manovrina”.
Un gioco di assegni rubati che passa a un pischello di vent’anni ma già svelto di mano e d’ingegno: solo che il pischello si mette a ricattarlo – quella macchinona di Buzzi, come avrà fatto a comprarsela? E tutti quei regali e quelle cene con la giovane brasiliana, come può permettersele? I due si incontrano per un chiarimento definitivo, il pischello ci va armato – almeno è così che la racconta poi Buzzi – una colluttazione, e Buzzi che colpisce e colpisce e colpisce. Trentaquattro coltellate, risultano tante quando le contano. Una storiaccia. Pena complessiva: anni 14 e mesi 8 di reclusione per i reati di omicidio e calunnia. È il 26 giugno 1980. Tre anni dopo, si laurea. E un anno dopo organizza il convegno di Rebibbia. Deve avere del sale in zucca, Buzzi, oltre a essere «un criminale italiano».
Per capire il convegno di Rebibbia e tutto quello che venne dopo bisogna capire cosa succedeva dentro le carceri negli anni Ottanta del secolo scorso. Una massa di detenuti politici ( che tali non furono mai considerati) e di detenuti politicizzatisi, attraverso le rivolte degli anni Sessanta e Settanta e il lavoro della sinistra extraparlamentare prima e dei Nap dopo, e condizioni di vita sempre più restrittive, a fronte di una popolazione detenuta che aumentava. Si evadeva, si progettavano rivolte, si sparava per le strade. Persino agli architetti delle carceri sparavano. Eppure, invece di puntare a una maggiore militarizzazione e con una opinione pubblica sgomenta e disponibile forse a un discorso ancora più repressivo, ci fu un parlamentare, uno spirito cattolico inquieto e fermo, che riuscì a ribaltare il punto di vista: si chiamava Mario Gozzini.
Bisognava allentare la presa, non c’era altro modo per uscire da quella spirale viziosa, più repressione più violenza più repressione. C’era tutta un’area di detenuti politici – quelli dell’Area omogenea di Rebibbia, che cercavano di sfuggire alla tenaglia Brigate rosse/ Stato – che si incontravano con parlamentari di vario segno politico, producevano documenti per convegni, ragionavano sulle possibilità di “socializzare il carcere”.
Gozzini non voleva «l’umanizzazione del carcere» – un concetto orrendo –, piuttosto puntava a dare valore e attuazione all’articolo 27 della Costituzione, laddove dice che la pena è rieducativa. E così, la Gozzini ( legge 10 ottobre 1986, numero 663), intervenne su permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la libertà condizionale, la liberazione anticipata. Insomma, allentò la presa.
È nella formazione di questo quadro normativo e istituzionale che nacque la cooperativa 29 giugno di Salvatore Buzzi. Lui stesso divenne «carne e sangue» di quella possibilità di un percorso di riabilitazione. Il resto è cronaca giudiziaria e politica.