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Si parte da capi d’accusa ben precisi nei confronti degli imputati al processo presunta trattativa Stato-mafia, ma strada facendo spuntano fuori altri elementi. Ma sono sempre gli stessi. Quelli che fanno giri immensi, ma che poi ritornano. Sì, perché nonostante i processi clone nei confronti degli ex Ros, poi finiti con l’assoluzione, le tesi giudiziarie medesime riaffiorano in corso d’opera. L’ultimo atto del processo d’appello della trattativa Stato-mafia, ora agli sgoccioli perché a maggio dovrebbe finalmente iniziare la discussione, riguarda la vicenda della perquisizione di Giovanni Napoli. Parliamo di un veterinario, arrestato per essere stato un referente mafioso di Mezzojuso e soprattutto per aver dato sostegno logistico a Bernardo Provenzano. Una vicenda che si inquadra nel discorso della mancata cattura di quest’ultimo. Un argomento, questo, in realtà già sviscerato dalla sentenza di assoluzione del processo Mori-Obino. I due ex ufficiali erano stati accusati di aver favorito la mancata cattura dell'allora superlatitante, ma assolti definitivamente dall’accusa sostenuta dal procuratore generale Roberto Scarpinato e l’allora sostituto pg Luigi Patronaggio. I floppy furono consegnati a Gioacchino Genchi Ma i procuratori generali del processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia, hanno delegato degli accertamenti alla Direzione investigativa antimafia. Hanno ritenuto sospetto il fatto che la perquisizione in casa di Napoli e la prima, non riuscita, analisi dei floppy sia stata affidata a due carabinieri, uno da poco arrivato al Ros e un altro appena ventenne senza alcuna esperienza. Un giallo? In realtà non c’è stato alcun insabbiamento, dal momenti in cui i Ros – di comune accordo con la procura di Palermo – hanno consegnato i floppy disk a uno dei più qualificati e conosciuti esperti informatici dell’epoca, ovvero Gioacchino Genchi. Lui stesso si lamenta di averli tuttora in casa, nonostante abbia più volte sollecitato la Procura a ritirare il materiale e a liquidare la parcella per la consulenza. Sicuramente c’è una spiegazione plausibile, ma i Ros cosa c’entrano in tutto ciò? Un altro mistero che mistero non è Si aggiunge però un altro mistero, che come vedremo più avanti mistero non è. Dopo pochi giorni dall’arresto di Giovanni Napoli, i Ros restituirono alla moglie due telefonini e un rilevatore di microspie satellitari. Ed è qui che nasce un dubbio. Come mai? Hanno almeno fatto delle analisi? Non è questione di poco conto e per capire meglio bisogna fare un passo in dietro. Durante il processo trattativa Stato-mafia di primo grado, l’allora pubblico ministero Antonino Di Matteo interroga il pentito Ciro Vara, il quale racconta di avere ricevuto delle confidenze da Giovanni Napoli: « … in certi dischetti avevano registrato delle cose interessanti che conservava il Napoli, tanto è che quando hanno fatto la perquisizione a casa del Napoli, poi il comandante della stazione dei carabinieri di Mezzojuso poi dopo qualche giorno ha consegnato questi dischetti e effettivamente mi diceva il Napoli c’era qualche, qualche cosa interessante da estrapolare… qualche cosa che poteva essere utile agli inquirenti… mi ha detto soltanto queste testuali parole, che c’erano questi dischetti, sono stati sequestrati e che c’erano delle cose interessanti che riguardavano Provenzano, e che sono stati restituiti dopo pochi giorni. Solo questo».Ora sappiamo che i floppy disk non sono mai stati restituiti, ma fatti analizzare da Genchi. Infatti i procuratori generali che rappresentano l’accusa al processo d’appello trattativa Stato-mafia, dicono che il pentito Ciro Vara potrebbe aver fatto confusione quando ha parlato delle confidenze ricevute da Napoli. Quest’ultimo parlò di floppy disk, ma in realtà si trattava dei telefonini. E in effetti tutto torna. Sono stati i telefonini a essere restituiti. Tutto scritto nero su bianco dalle note che i Ros hanno mandato all’allora procuratore aggiunto di Palermo Maria Teresa Principato, magistrata seria e che da anni è stata impegnata nella cattura del super latitante Matteo Messina Denaro, tanto da fargli terra bruciata con arresti e sequestri di beni.Dalle note inviate in procura, emerge che, prima di restituire il telefonino, i Ros lo hanno analizzato ricavando ben 96 utenze. Nella nota datata 10 novembre 1998 e sottoscritta dal capitano Michele Sini, si legge infatti che «nel corso dell’operazione di perquisizione (l’abitazione di Napoli, ndr), il personale di questa sezione anticrimine riveniva apparati cellulari nella disposizione del prevenuto». E aggiunge che «da un successivo esame della memoria del Motorola micro tac avente nr. di serie 5802YG1P7S si riusciva ad estrarre nr. 96 numeri telefonici». Prosegue: «Si trasmette, pertanto, l’unito verbale di restituzione materiale, nonché l’annotazione redatta e comprensiva dei numeri telefonici esistenti in memoria». Tutto alla luce del sole I Ros hanno spiegato tutto quello che hanno fatto, ogni singola operazione, alla procura competente. Ma ritornando alla confidenza che Napoli fece al pentito Vara, c’erano elementi importanti che potessero destare preoccupazione ai mafiosi, in particolare a Provenzano, visto che si parla del suo tesoro? Ebbene sì. I Ros hanno analizzato tutte le utenze telefoniche e fatto visure per ognuno delle società legate ai nomi che erano entrati in contatto telefonico con Giovanni Napoli. Tutto scritto nero su bianco, tant’è vero che emerge una incredibile mappatura riguardante gli affari. Parliamo degli appalti. Compaiono diverse società che già erano attenzionate (il dossier mafia-appalti) dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno quando Falcone e Borsellino erano ancora in vita. In queste utenze analizzate erano usciti fuori i nomi di chi si adoperò per costringere aziende nazionali a fare affari con i corleonesi. Anche Provenzano avevail suo “ministro dei lavori pubblici” Solo un esempio per far necomprendere la portata. Nella nota dei Ros dove si annota l’analisi fatta al telefonino, si legge testualmente di presunte responsabilità di uno degli utenti in contatto con Napoli nell’appalto delle forniture al sistema di Telecontrollo del consorzio Basso Belice Carboj. «In particolare– si legge nella nota dei Ros inviata alla procura di Palermo -, gli indiziati, avvalendosi della forza intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento, avrebbero, attraverso forme di corruzione costate al gruppo Gal – Isytech – Motorola oltre trecento milioni di lire, già pagati sotto forma di viaggi in Israele e negli Stati Uniti oltre che con soldi consegnati in contanti, consentito l’aggiudicazione della fornitura del Sistema di Telecontrollo del consorzio Basso Belice Carbo, a favore della Motorola». Precisiamo. Parliamo di presunti fatti risalenti agli anni 90, ma che rendono bene l’idea dell’importanza degli affari con gli appalti. Sappiamo che anche Provenzano aveva il suo “ministro dei lavori pubblici”, ed era Giuseppe Lipari. Tutto questo serve per dire che non c’è alcun giallo sulla perquisizione dell’appartamento di Giovanni Napoli. L’operazione è stata trasparente e senza tenere nulla all’oscuro della Procura. L’unico dato negativo che emerge è la smemoratezza dei Ros che parteciparono all’operazione, tant’è vero che - sentiti come testimoni al processo trattativa Stato-mafia in corso - non si ricordavano nemmeno cosa hanno firmato o meno. Non ricordarlo da adito a non poche suggestioni. Ma quello che conta in un’aula di tribunale, almeno in uno Stato di diritto, sono le prove. Se trattativa c’è stata, bisogna capire quali favori avrebbe ricevuto in cambio la mafia. Finora sono oggettivamente difficili da visualizzare. Vedremo cosa diranno i pg durante la discussione e cosa risponderà la difesa. La sentenza potrebbe arrivare a ridosso dell’anniversario della strage di Via D’Amelio.