Fin qui abbiamo tratteggiato l’interesse di Falcone e Borsellino per l’informativa dei Ros dedicata a mafia- appalti. L’interesse era quello di approfondire l’inchiesta, ma sappiamo che non avevano la delega e così l’inchiesta fu dapprima depotenziata, indagando solo cinque persone, poi fu diffuso – non si sa da chi - il contenuto del rapporto che arrivò a tutti i soggetti coinvolti; infine fu tutto archiviato, quando il corpo senza vita di Borsellino era ancora caldo. La richiesta di archiviazione - firmata dai sostituti Lo Forte e Scarpinato - fu avanzata pochissimi giorni prima dell’attentato.

In seguito ci sono state diverse inchieste giudiziarie “spezzettate” ma che non portarono a nulla visto che c’è stata una sorta di scompenso tra le intuizioni investigative elaborate da Giovanni Falcone ( in qualche modo anticipate al Convegno di Castel Utveggio) puntualmente tracciate dai Ros e le utilizzazioni processuali conseguenti, da parte della procura di Palermo dell’epoca.

Il che dimostra ulteriormente come gli eccidi di Capaci e di Via D’Amelio avessero rallentato di molto l’attuazione dell’originario programma investigativo e che, di conseguenza, Cosa nostra avesse raggiunto i suoi obiettivi attraverso le stragi del 1992. Ma perché la mafia aveva paura che quell’indagine venisse approfondita? Perché – secondo la testimonianza di Angelo Siino, considerato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra -, la mafia riferendosi a Falcone avrebbe detto «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare» ?

L’indagine dei Ros che dettero vita all’informativa mafia- appalti è nata sotto la spinta del magistrato Giovanni Falcone, tant’è vero che i Ros lo informavano delle indagini ben prima che redigessero il dossier. Infatti due sono le informative dei Ros consegnate a Falcone ( e anche a Lo Forte che era sostituto procuratore a Palermo): una datata il 2 luglio 1990 e l’altra il 5 agosto del 1990. Falcone aveva capito che non bastava arrestare gli esponenti dei clan, ma bisognava colpire la ricchezza di Cosa Nostra, frutto di vere e proprie attività imprenditoriali. Del resto già Leonardo Sciascia aveva tratteggiato la figura dell’imprenditore mafioso, Colasberna, ne Il giorno della Civetta.

Tuttavia, fino al momento in cui i Ros non misero il becco nel reimpiego dei capitali mafiosi nella gestione degli appalti, la linea investigativa era concentrata essenzialmente sulle indagini bancarie ai fini dell’individuazione delle somme di denaro e dei molteplici prestanomi che ne favorivano l’occultamento. Il meccanismo della gestione degli appalti in mano alla mafia è ben sintetizzato in un passaggio dell’informativa dei Ros dove si dice che i mafiosi “disponevano di una capacità operativa sorprendente, abbinata, tra l’altro, ad una pressoché illimitata forza condizionante la pubblica amministrazione che permetteva loro di aggirare e superare qualsiasi vincolo legislativo e non”, e che non aveva solo la capacità di indirizzare la volontà degli Enti Pubblici, “ma di coartarla in tutti i suoi aspetti, riuscendo in alcuni casi, a programmare essi stessi l’attività economica d’intervento pubblico”.

Come accade spesso nelle indagini investigative, le collusioni vengono scoperchiate quasi per caso. Tutto cominciò quando, a settembre del 1989, avvenne l’omicidio di un imprenditore di Baucina, piccolo comune vicino Palermo. Nel corso delle relative indagini era emerso che l’impresa gestita dalla vittima legata alla mafia si era associata, in relazione ad un pubblico appalto di modesta entità, con la società Tor Di Valle Spa, di ben più imponenti dimensioni ed avente sede in Roma: all’epoca gestiva enormi appalti come la costruzione della nuova Casa circondariale di Civitavecchia, il prolungamento della linea ' B' della metropolitana di Roma e altro ancora. È da quel momento che l’indagine si era concentrata su diverse società importanti della Sicilia che sarebbero entrate nel circuito mafioso.

Sono società di modeste dimensioni che però erano collegate con le grandi imprese operanti al livello nazionale. Oltre alla Tor Di Valle, tra le tante, compare anche la società del nord Calcestruzzi s. p. a. del Gruppo Ferruzzi- Gardini che si era accordata con l’imprenditore mafioso Buscemi. Sul progressivo cambiamento del ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti dopo la metà degli anni 80, è necessario prendere in considerazione le conclusioni argomentate dai giudici della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta tratte dalla testimonianza di Siino.

I giudici nisseni hanno spiegato che la mafia, da un ruolo prettamente parassitario incentrato sulle “messe a posto”, sui subappalti, sulle gestioni dei lavori per conto terzi, era passata a uno imprenditoriale, nel senso che la mafia aveva cominciato “a gestire direttamente l’aggiudicazione degli appalti ad imprese a lei vicine”. Cosa nostra, si era inserita “a tappeto nella gestione dei lavori conto terzi e nei subappalti”, applicando “il pizzo sul pizzo”, cioè decurtando una parte delle tangenti dirette ai politici.

Dall’informativa dei Ros mafia e appalti, infatti, si evince che l’obiettivo della mafia era quello di utilizzare il denaro del finanziamento al Mezzogiorno per i lavori da aggiudicare alle imprese dell’organizzazione. E a gestire i soldi del Mezzogiorno era la Sirap. Tale ente verrà poi esaminato dai Ros in un momento successivo tramite l’informativa “Caronte”, solo perché aveva una sua complessità rispetto alle vicende comprese nella informativa del febbraio del 1991 e perché, anche su sollecitazione dello stesso Falcone, si era preferito depositare, prima, una informativa di carattere generale. L’informativa “Caronte” venne tramessa alla Procura di Catania che, al termine delle indagini, formulò una richiesta di misure cautelari verso numerosi esponenti politici. L’allora procuratore Gabriele Alicata, non ritendendo competente il suo ufficio, trasmise le carte alla Procura di Palermo. Tutti gli esponenti politici e amministrativi per i quali la procura di Catania aveva richiesto misure cautelare, non vennero in quella sede perseguiti.

La Sirap era incaricata dalla Regione Sicilia - il cui Presidente dell’epoca era l’onorevole Rino Nicolosi – di gestire finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno e dell’allora Comunità europea ( la ex Cee) per circa mille miliardi, per la realizzazione di venti aree attrezzate da destinare alle piccole e medie imprese artigianali ed industriali. Si trattava, quindi, della gestione di venti gare di appalto dell’importo di circa cinquanta miliardi ciascuna.

Erano tanti soldi, miliardi e miliardi delle vecchie lire, che potevano dare potere alla mafia, quello di condizionare la politica e l’economia legale. La Procura di Palermo aveva, come già detto, la delega per le indagini. Ma poteva farlo serenamente? Alcuni magistrati titolari dell’inchiesta avevano parenti di primo grado e anche padri e fratelli legati a quelle imprese ed enti sotto la lente d’ingrandimento dei Ros: uno dei sostituti procuratori aveva il padre presidente dell’Espi, ente economico che aveva il controllo della Sirap, società coinvolta nelle indagini.

Sappiamo che Paolo Borsellino, ad esempio, aveva già chiesto al magistrato Salomone – fratello di uno degli imprenditori coinvolti nell’informativa dei Ros - di operare alla procura di Palermo, ma di non occuparsi di mafia- appalti per questioni di opportunità. Era solo un’informativa e quindi sono tutti innocenti fino a prova contraria, ma per questioni di evidenti “conflitti di interesse” forse sarebbe stato opportuno dare la delega ad altri magistrati, magari proprio a Falcone e Borsellino. Entrambi – come diverse testimonianze e documento lo certificano - informalmente seguivano mafia- appalti, ma furono dilaniati dal tritolo. Il movente che ha concausato la loro morte è stato sepolto con loro, in compenso sono stati condannati, in primo grado, coloro che dettero vita a quello scottante dossier.

QUARTA PUNTATA/ CONTINUA