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Un alone di mistero circonda la fine della prima Repubblica, come del resto molti dei suoi passaggi cruciali. E’ stato il presidente del Senato Piero Grasso, intervistato dal Corriere della Sera, ad aggiungere il suo sassolino di dubbio alla già alta muraglia di sospetti legati alla presunta trattativa tra Stato e Cosa nostra in quella cruciale fase politica. Grasso però pensa a tutt’altro: «S’intuisce che Cosa nostra possa essere stata il braccio armato di altri interessi: di una strategia politica; di tipo economico legati agli appalti pubblici; o di entità deviate rispetto alle proprie funzioni istituzionali». Più ermetica di così neppure la celebrata prosa di don Binnu Provenzano.
E tuttavia, anche senza cadere nelle diaboliche tentazioni della dietrologia imperante, è probabile che qualche ragione il secondo cittadino della Repubblica ce l’abbia. È difficile immaginare che tra la politica della prima Repubblica, nell’anno della sua repentina e del tutto imprevista fine, e la sanguinosa offensiva di Cosa nostra non ci siano state correlazioni, magari periferiche e non determinanti. Già all’epoca del resto, nei palazzi assediati, circolavano voci chissà quanto tendenziose sulla singolare sincronicità tra i due eventi, di fatta assai diversa, che minarono le fondamenta del potere di Giulio Andreotti: l’uccisione di Salvo Lima in Sicilia e il ' tradimento' di Vittorio Sbardella, per amici e nemici ' lo Squalo', nel Lazio. Non erano due capibastone qualsiasi ma i perni del potere andreottiano nel Paese. L’assassinio di Lima e l’improvvisa defezione di Sbardella misero il divo Giulio in ginocchio.
Né si può dimenticare che l’anno del declino della prima Repubblica fu anche quello in cui si misero in moto, in seguito alla crisi esplosa nella seconda parte di quell’anno, movimenti economici e finanziari di immensa portata, con l’avvio delle privatizzazioni. Anche senza ridurre don Totò a un braccio armato, è senz’altro possibile che coincidenze di interesse si siano verificate, anche se, come lo stesso Grasso ammette, si tratta al momento solo di fantasia e immaginazione.
L’annus horribilis della politica italiana, quello che si sarebbe rivelato come tombale per la prima Repubblica, cominciò 25 anni fa, e iniziò con una vittoria dello Stato: la prima sezione della Corte di Cassazione confermò la sentenza d’appello nel maxiprocesso contro Cosa nostra, istruito dal pool della procura di Palermo a partire dalle dichiarazioni del grande pentito Tommaso Buscetta. Su 474 imputati i con- dannati furono 360. Tra i 19 condannati all’ergastolo c’era il vertice della mafia al potere dopo il golpe dei corleonesi dei primi anni ‘ 80: Totò Riina, Binnu Provenzano, Michele Greco ' il papa'.
Quella sentenza diede fuoco alla miccia. Cosa nostra non se la aspettava. La procura di Palermo la temeva. A presiedere sarebbe dovuto essere Corrado Carnevale, l’ ' Ammazzasentenze'. Pignolo e garantista sino all’esasperazione, buttava giù una sentenza dopo l’altra senza mai chiudere gli occhi sui vizietti di forma che molti colleghi ritenevano invece trascurabili. Nell’Italia di quegli anni era famosissimo e circondato da un’aura di sospetto, che si concretizzò infine nel rinvio a giudizio, con tanto di sospensione da carica e stipendio. Assolto in primo grado nel 2000, condannato a 6 anni per ' concorso esterno' l’anno seguente, fu infine assolto con formula piena e senza rinvio dalla Cassazione nell’ottobre 2002. Non se ne accorse nessuno. Restò sospeso altri sei anni.
[caption id="attachment_31815" align="alignnone" width="621"] Firenze, 1996, Toto Riina al processo sulle bombe di Cosa Nostra[/caption]Fu Giovanni Falcone a mettere per primo le mani avanti promuovendo una sorta di ' monitoraggio permanente' sulle sentenze della Cassazione. Una pressione forse inaudita ma efficace: la Corte decise che i processi di mafia sarebbero stati attribuiti a rotazione a tutti i presidenti di sezione e non più solo a quello della prima sezione. Al posto di Carnevale fu Armando Valente a presiedere per la sentenza sul maxi, e forse anche per questo le condanne furono confermate.
Riina reagì dichiarando guerra. Non la solita ammazzatina eccellente, ma una guerra totale, su tutti i fronti, non solo colpendo politici e magistrati ma anche sparando nel mucchio. Il primo a cadere fu, meno di due mesi dopo la sentenza, Salvo Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia: punito per non aver saputo garantire a Cosa nostra la protezione attesa e forse promessa. Poi fu il turno dei giudici e delle loro scorte, Falcone a Capaci il 23 maggio, Borsellino in via D’Amelio a Palermo il 19 luglio, e infine, il 17 settembre a essere ammazzato fu Ignazio Salvo, anche lui un perno del potere andreottiano in Sicilia legato a Cosa nostra. Lo stesso Grasso sarebbe dovuto cadere poco dopo. Riina aveva già dato l’ordine. Dovette soprassedere per ' problemi tecnici'. La strategia del colpire nel mucchio con le stragi indiscriminate fuori dalla Sicilia iniziò invece solo nel 1993, dopo l’arresto di Riina il 15 gennaio
[caption id="attachment_31816" align="alignnone" width="631"] Giovanni Falcone e Paolo Borsellino[/caption]Gli intrecci tra la vicenda della politica e quella della guerra di mafia sono in alcuni casi oggettivi. Il 25 maggio 1992 l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza della Repubblica, dopo uno stallo lunghissimo, fu una conseguenza diretta della strage di Capaci, ma l’offensiva mafiosa contribuì in buona misura a delegittimare una classe dirigente politica già messa in ginocchio da tangentopoli. Nel marzo 1993 la sospensione del 41bis per 140 mafiosi a opera del ministro della Giustizia Giovanni Conso fu quasi certamente una conseguenza dell’offensiva di Cosa nostra, che mirava tra le altre cose proprio a ottenere la soppressione del carcere duro. Ma è probabile che, in vista di elezioni politiche imminenti dalle quali sarebbe uscito il quadro dirigente della nuova Repubblica, le grandi manovre in una regione decisiva come la Sicilia siano andate ben oltre. Solo che, come in tutte le vicende di questo genere che costellano la storia della prima Repubblica il confine tra legittimo sospetto e lavoro di fantasia è tanto labile da rendere obbligatoria massima circospezione. Altrimenti diventa fortissimo il rischio di cadere nella favole fiorite intorno al rapimento di Aldo Moro, confondendo invece di chiarire e rendendo la verità storica non più vicina ma irraggiungibile.