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Pietro Cavallotti
L’eccessiva durata delle misure di prevenzione finisce a Strasburgo. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha infatti dichiarato ricevibile il ricorso con cui gli imprenditori Cavallotti si sono lamentati della irragionevole durata del sequestro dell’azienda di famiglia, la Euroimpianti plus srl, tenuta sotto sigilli dallo Stato per otto anni, durante i quali, sotto amministrazione giudiziaria, ha subito danni - certificati dal commercialista Giovanni Allotta - per oltre 11 milioni di euro. La vicenda è quella degli imprenditori di Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo, assolti da ogni accusa di mafia eppure spogliati di tutto dallo Stato, che ha riconosciuto l’errore solo lo scorso anno, certificando la provenienza lecita di quei beni. E ora, dopo il rifiuto della Corte di Cassazione di portare la questione davanti alla Corte costituzionale, a confrontarsi con i tempi biblici delle misure cautelari reali sarà, per la prima volta in assoluto, la Corte europea. Un fatto storico, che affonda le proprie radici in un iter lungo e travagliato, iniziato nel 2011.La vicenda è stata portata davanti alla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo dall’avvocato Rocco Chinnici, che ha evidenziato il superamento del limite temporale del primo grado del giudizio di merito nel procedimento di prevenzione, fissato dalla legge in un anno e sei mesi, fino a un massimo di due anni e mezzo in caso di ricorso al meccanismo della proroga. Un limite che rappresenta «una garanzia di ragionevolezza e proporzionalità nell’applicazione di una misura cautelare reale». Ma tribunale prima e Cassazione poi hanno respinto la richiesta, sostenendo che il termine di estinzione del procedimento «rimane sospeso» durante lo svolgimento degli «accertamenti peritali» e ciò «per tutta la durata di essi». Un’interpretazione, ha obiettato Chinnici, che comporterebbe una abrogazione implicita dei termini massimi di durata del procedimento, stante l’indeterminatezza dei tempi degli accertamenti peritali, determinando «un grado intollerabile di incertezza e di allungamento del periodo di sospensione, in contrasto assoluto con il principio costituzionale e convenzionale della ragionevole durata del processo». Dopo la restituzione dei beni, che per la famiglia rappresentava la «fonte di sostentamento economico», i Cavallotti si sono ritrovati in mano una «scatola vuota». Una beffa, considerando anche lo stigma sociale che, nonostante le assoluzioni, li ha trasformati in mafiosi e, dunque, reietti, spiega al Dubbio l’avvocato Stefano Giordano, che ha portato la questione davanti alla Cedu. Che, dunque, affronterà non il tema della restituzione, ma, per la prima volta la questione dell’irragionevole durata del processo dal punto di vista delle misure di prevenzione, nonché la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare e della protezione della proprietà. Una sorta di «esperimento che rappresenta un nuovo filone», aggiunge Giordano. E anche una specie di eccezione, dal momento che circa il 90 per cento dei ricorsi presentati alla Cedu viene dichiarato irricevibile. «Per me è una grande soddisfazione personale - commenta Pietro Cavallotti, uno degli eredi dell’azienda ormai ridotta all’osso -. Io non ho studiato legge per avere un titolo da sbattere in faccia alla gente e neppure per interesse professionale. L’ho fatto solo per aiutare la mia famiglia ad uscire dall’inferno in cui altri l’hanno scaraventata. Trovare strade che nessuno ha mai percorso prima, quando tutti ti dicono che è tempo perso, cogliere il frutto dello studio sofferto, dà grande soddisfazione. Indipendentemente da come andrà a finire, sarà una decisione che farà giurisprudenza».