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«No, nessun sollievo. Dispiacere, piuttosto. Un’eventuale sentenza di rimozione di Luca Palamara dalla magistratura sarebbe comunque molto dolorosa. Si tratta di una figura che ha ricoperto incarichi, rivestito un ruolo e un’importanza significativi nella nostra storia. E mi creda: altro che sollievo. Lo stato d’animo è lo stesso avvertito insieme con i colleghi presenti, dal vivo e da remoto, all’assemblea che ha decretato l’espulsione di Palamara dall’Anm: una sensazione plumbea». Eugenio Albamonte, segretario di “Area”, la corrente progressista della magistratura, non è propriamente un leader dell’associazionismo giudiziario che abbia sposato la linea giustificazionista, sul caso Palamara. E però non gli sfuggono affatto il portato e la componente umana della storia: «Piuttosto che avvertire un sollievo, una dismissione del problema, alla magistratura, a noi tutti tocca affrontare un percorso di autocritica profondo, se ancora vogliamo avere un ruolo anche culturale nel Paese e se vogliamo nello stesso tempo arginare le degenerazioni».
Siete stati per alcuni anni contrapposti a Berlusconi. Era un’Anm battagliera. Politicizzata, per alcuni. Poi la politica è implosa. Possibile che anche per questo nella magistratura si sia assistito a un ripiegamento individualistico da cui sono venuti carrierismo e svilimento clientelare?
È possibile. Anzi: è un’ analisi in gran parte da condividere. Da una parte si è assistito a una perdita di idealità e di visione della società in tutte le classi dirigenti. Dall’altra, nel caso di noi magistrati, il ripiegamento sul personale si è tradotto in una perdita di identità culturale e di idealità per le correnti. Alcune hanno rinunciato all’impegno pubblico e all’elaborazione culturale in modo più netto. Ma si è affermato un individualismo a tutti i livelli, e contemporaneamente alla trasformazione delle rappresentanze al Csm in una sorta di uffici di collocamento, in reti di mutuo soccorso, in cui i favori hanno prevalso sul resto.
La vicenda di Palamara si inserisce proprio in un quadro del genere?
Evidentemente ci sono state figure che hanno interpretato l’associazionismo come relazione clientelare in modo individualistico. Il che è anche la conseguenza del sistema introdotto anni fa per l’elezione dei magistrati al Csm.
Cosa intende dire?
Che, prima della riforma, il voto era in qualche modo orientato verso la lista. La corrente che presentava la lista aveva anche il controllo, la responsabilità sulle condotte dei propri eletti. Se erano condotte sbagliate, il gruppo lo avrebbe pagato alla tornata successiva. Da un simile meccanismo di controllo collettivo si è passati a un sistema di fatto maggioritario: il voto è per il singolo magistrato, seppure inserito nella lista di una corrente. Risultato: si è ingigantito il potere di quel singolo magistrato rispetto al gruppo. Prima era il gruppo a scegliere il candidato, col sistema tuttora vigente è il singolo a imporsi. E a vivere poi il mandato di consigliere al Csm in un’ottica di protagonismo individuale, tutto imperniato sulla propria rete, sulla propria personale capacità di influenza e ovviamente sull’azzeramento del rilievo culturale dell’associazionismo giudiziario.
Detto così, non pare un endorsement per il nuovo sistema elettorale previsto nella riforma del Csm.
Di sicuro neppure il sorteggio rimedierebbe a un simile costume degradato, sarebbe anzi la soluzione peggiore. Non si risponde a nessuno, si è eletti per caso, si bada solo alla propria rete di conoscenze tra colleghi, magari a coloro con cui si è affrontato il concorso, a chi condivide l’ufficio in cui si lavora: il massimo dell’individualismo.
È l’individualismo la causa dei problemi?
Il nesso fra perdita di idealità e deragliamento verso l’assistenza clientelare è saldissimo. Aggiungo una cosa: le correnti si sono a un certo punto persuase che la dinamica dei favori portasse consensi a lungo termine. Non è vero. Disgrega, perché i magistrati si distaccano dall’associazionismo, ne colgono la riduzione a nominificio. La sola maniera per uscirne è una seria presa di coscienza critica sulle dinamiche di cui parliamo, che però deve essere collettiva.
C’è il rischio che non tutti la condividano?
Io ho letto l’intervista rilasciata al vostro giornale dalla segretaria di Magistratura indipendente Paola D’Ovidio. Dire che dietro la vicenda Palamara ci sono un complotto e un ribaltone mi pare equivalga a negare i problemi in cui ci si è trovati all’interno dei gruppi.
Circolano voci su un distacco di “Mi” dall’Anm: se avvenisse, la magistratura perderebbe presenza culturale nella società e forza con la politica?
Di sicuro un ordine disarticolato in più rappresentanze parallele sarebbe assai più debole. Sarebbe un errore, un danno arrecato, in ultima analisi, alla tutela del singolo collega. Né condivido il richiamo al ripiegamento su una rappresentanza dei magistrati solo sindacalistica, priva di slancio ideale. Serve un’analisi collettiva, e una riscoperta delle identità, della cultura giudiziaria: è il solo antidoto alla dissoluzione che abbiamo vissuto. Il sindacalismo spicciolo enfatizza solo il ripiegamento sul personale.
Ma oggi l’Anm non è troppo conflittuale al proprio interno?
Lo è stata anche in passato. Si è trattato di un carattere specifico dell’associazionismo. Ma dividersi è persino balsamico, se lo si fa sulle idee. Ripeto, la via d’uscita, per i magistrati e per l’associazionismo, è nella capacità di tornare a offrire la tutela ai colleghi insieme con la presenza culturale nella società. E di far prevalere così la critica e l’elaborazione collettive sull’individualismo clientelare e disgregatore.
L’eventuale allontanamento di Palamara dalla magistratura rischierebbe di portare a una sorta di “archiviazione della pratica”, rispetto al percorso autocritico collettivo di cui lei parla?
Sarebbe un errore gravissimo. Innanzitutto ci sono altri procedimenti disciplinari da svolgere, in gran parte collegati alla vicenda di Palamara, ma c’è anche la necessità di non limitarsi all’accertamento disciplinare. Serve anche una verifica sul piano etico, deontologico. Certo è che siamo solo all’inizio, se vogliamo voltare pagina, ed è un’azione che imporrebbe un impegno comune.
A proposito di azioni comuni, mercoledì l’avvocatura ha espresso dissenso sul ddl penale rispetto a punti ritenuti disfunzionali anche dall’Anm: crede sia possibile un’iniziativa congiunta di rappresentanze forensi e Anm per chiedere la modifica del testo?
Lo chiede a me? Nella fase in cui ho assunto la presidenza dell’Anm mi sono fatto carico proprio del dialogo con il Cnf, con l’Unione Camere penali, basato su una convinzione: non c’è nulla, dico nulla, che nel dibattito pubblico sulla giustizia possa avere la stessa forza di un’iniziativa politica comune fra magistratura e avvocatura. Non ci sono proposte politiche dei partiti o di altri che, nel campo della giurisdizione, possano competere per autorevolezza e forza con una azione congiunta di magistrati e avvocati. È solo da auspicare che quel rapporto, che per vari motivi si è rarefatto, torni ad assumere tutta l’efficacia sperimentata in passato.