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Il processo da remoto cambia e viene riportato, alla fine, sui binari dell’equilibrio. Così, dopo aver accolto le sollecitazioni del Parlamento, ma innanzitutto dell’avvocatura, il nuovo decreto che stabilisce le modalità d’udienza durante la fase 2 dell’emergenza coronavirus prevede l’esclusione del collegamento da remoto per le udienze penali di discussione finale, sia pubbliche sia in camera di consiglio, nonché – salvo che vi acconsentano le parti – per le udienze in cui devono essere esaminati i testi, le parti, i consulenti tecnici o i periti. Lo svolgimento dell’udienza civile deve in ogni caso avvenire «con la presenza del giudice nell’ufficio e con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti». Ma non solo: il periodo di emergenza viene esteso ben oltre il 30 giugno - termine fissato dal primo decreto “Cura Italia” -, ovvero fino al 31 luglio, contrariamente, in questo caso, a quanto richiesto dall’avvocatura. La nuova norma, però, non ha placato la polemica. Così da un lato, ancora una volta, ci sono le posizioni intransigenti di una parte della magistratura, pronta a giurare che gli avvocati stiano intralciando il corso della giustizia, mentre dall’altra proprio loro, le rappresentanze forensi - in primis Unione Camere penali e Cnf - chiedono rispetto per la tutela dei diritti. La nota più dura è quella della Giunta esecutiva dell’Anm, che si è definita «sconcertata» dall’alluvione di atti normativi auto sconfessanti prodotta dal governo, norme «irrazionali», soprattutto perché chiedono la presenza in aula dei giudici civili, gli unici a poter contare su un sistema rodato di processo telematico. L’Anm si spinge a definire «demagogico» il decreto modificato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, nonché «privo di progettualità e di consapevolezza delle reali esigenze organizzative del sistema giudiziario», mettendo a rischio «la salute della collettività imponendo ad alcuni lavoratori di recarsi in ufficio anche per attività che possono essere sicuramente svolte da remoto». Parole rincarate da quelle dei magistrati di Area Dg, secondo i quali Bonafede sarebbe privo di una «strategia politica e giudiziaria per la gestione dell’emergenza sanitaria nel settore giustizia». Ma i principali colpevoli sarebbero proprio loro, gli avvocati: «Là dove non sarà possibile tornare nelle aule» a causa del rischio contagio, la responsabilità sarà esclusivamente dell’avvocatura, «che non avrà collaborato», cioè dato l’ok per celebrare da remoto le udienze. È irrazionale, per Area Dg, pretendere che i magistrati stiano in aula, anche e soprattutto per la mancata predisposizione, allo stato attuale, di tutte le regole per garantire la sicurezza nei tribunali. «L’intera magistratura - prosegue la nota - deve pretendere che tali misure vengano messe in atto prima della ripresa parziale delle attività fissata per il 12 maggio e, in caso contrario, denunciarne pubblicamente le palesi responsabilità politiche». E la polemica non ha tardato a trovare il proprio contraltare nella voce dell’Unione Camere penali, che ha definito «scomposta» la reazione della magistratura associata di fronte alla «prudente volontà del Parlamento» di ridimensionare il processo da remoto, che aveva sovvertito, dicono i penalisti, «i principi fondativi e secolari del processo penale». La posizione della magistratura, per l’Ucpi, svelerebbe «l’investimento politico» dell’Anm, ovvero «una insperata accelerazione verso la burocratizzazione autoritaria del processo penale mediante la riduzione a icona del diritto di difesa dei cittadini». Se, da un lato, viene condivisa la richiesta di una messa in sicurezza immediata delle aule di giustizia, dall’altro «la sola responsabilità che noi avvertiamo - afferma la giunta dell’Unione - è quella di rimuovere quanto prima la paralisi della giurisdizione», riaprendo le aule, «magari anche di sabato e per qualche settimana in agosto, senza odiose ed ingiustificabili pretese di protezioni privilegiate rispetto a quelle che spettano ai milioni di cittadini». Una posizione alla quale hanno contribuito ieri, attraverso una nota, anche i penalisti di Milano, che sin da subito, assieme ad altre Camere penali, hanno manifestato disponibilità «ad aderire a protocolli che prevedono per le urgenze il cosiddetto processo “da remoto”», per salvaguardare al massimo «non soltanto il diritto alla salute ma anche il diritto di difesa». Ma ciò non si traduce in una «adozione indiscriminata del rito “da remoto” per tutti i processi». Di fronte a una situazione sanitaria ritenuta dalla politica tale da consentire la ripresa di attività anche non essenziali, affermano dunque i penalisti, l’unica outsider rimane la Giustizia, che pure essenziale lo è. Tornare in aula in sicurezza è possibile, affermano, senza «sacrificare il diritto di difesa in nome di una male intesa tutela della salute». E le soluzioni, con la dovuta organizzazione, ci sono, afferma la Camera penale di Milano, anche attraverso «una scansione temporale dell’udienza», evitando assembramenti e disagi. «Questa è la responsabilità che ci assumiamo come avvocati e la assumiamo volentieri», concludono. Ora si attendono le indicazioni del ministro della Giustizia che uniformino le misure organizzative anti-contagio in tutti gli uffici giudiziari, come chiesto dal Cnf con la lettera della presidente Maria Masi a Bonafede, a cominciare dall’accesso da remoto del personale amministrativo ai registri, che consentirebbe di ridurre le presenze negli uffici.