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Non usa mezzi termini per censurare alcuni comportamenti della magistratura e per criticare il suo attuale assetto ordinamentale. Giuseppe Cricenti, magistrato, consigliere della Suprema corte di Cassazione, commenta duramente il caso Csm aperto un anno fa dall’indagine di Perugia su Luca Palamara e altri colleghi.
Consigliere Cricenti si aspettava che sul ruolo delle correnti emergessero elementi così pesanti?
La realtà non è emersa nella sua vera gravità: si cerca di accreditare l’idea che si tratti di un fenomeno di malcostume di alcuni magistrati o di alcuni gruppi. Invece, è diffuso in tutta la magistratura e sono pochi quelli che possono dirsene esenti o che nel corso della loro carriera non hanno tratto beneficio da un qualche accordo di corrente. Come spesso accade in questi frangenti, allignano moralisti senza morale, che dopo avere partecipato al sistema se ne tirano fuori e additano gli altri.
Le correnti andrebbero sciolte?
Sono, in astratto, espressione della libertà di associazione, e sarebbe come limitare quest’ultima. Ma non si può negare che si tratta di associazioni dal ruolo oramai anomalo: un organo a rilevanza costituzionale come il Csm è condizionato da associazioni private e non c’è delibera che non risponda a un interesse correntizio. Alcuni di quelli che hanno beneficiato del sistema, anche oggi, ripetono che le correnti erano sorte come fucine di pensiero, luoghi attenti allo sviluppo culturale della magistratura e che solo di recente sono degenerate in sistemi di spartizione degli incarichi. Ma è una mistificazione: precisino allora quale modello culturale hanno visto nascere e coltivare a iniziativa delle correnti. E soprattutto dimostrino che gli adepti di ciascuna corrente hanno adeguato i loro comportamenti alla dottrina di quelle fucine di pensiero.
Al di là delle prerogative statutarie, Palamara andava sentito sabato nel direttivo dell’Anm?
Andava sentito, certo. È una regola a priori, diremmo, di ogni procedimento sanzionatorio che chi è accusato debba avere la possibilità di dichiarare le sue ragioni.
Il presidente dell’Anm Luca Poniz, in una intervista a questo giornale, ha detto che “la carriera ha fuorviato alcuni magistrati” ma che vanno accantonate le “ipocrisie della politica”, a proposito, per esempio, della scelta dei magistrati nei ministeri.
Ai magistrati le correnti hanno offerto un certo modello di carriera, fondato sul sostegno del gruppo, piuttosto che sul merito, requisito ritenuto, se non dannoso, perlomeno inutile; hanno imposto l’idea che studiare è un’applicazione del tutto superflua, poiché basta avere amicizie in un gruppo influente. I magistrati si sono adeguati. Dunque, non è la prospettiva di carriera ad aver fuorviato i magistrati. Detto questo, la politica ha poche colpe, se si allude alla scelta dei collaboratori nei ministeri, i quali sono piuttosto indicati dalle correnti che scelti dal ministro per simpatie politiche. A ogni cambio di ministro c’è tendenzialmente un cambio di corrente. Basti verificare a quale corrente, ad esempio, appartengono i diretti collaboratori dell’attuale ministro.
Sabino Cassese ha definito le Procure un “quarto potere” indipendente dalla magistratura stessa.
È vero. Intanto, a fronte della formale obbligatorietà dell’azione penale, di fatto le Procure scelgono, a volte per fondate ragioni pratiche, a quali notizie di reato dare precedenza e questa scelta è di natura “politica”, incide sugli interessi della collettività e sugli stessi rapporti sociali, lasciando di fatto impuniti determinati fatti illeciti, perseguendone altri. Ed è questa un’azione che sfugge al controllo istituzionale, nella quale le Procure operano con una certa discrezionalità. C’è poi da considerare il ruolo sociale assunto dai pm negli ultimi anni, che è di maggior visibilità e di maggior contatto con l’opinione pubblica: mai visto un giudice delle locazioni diventare il beniamino di una certa quota di popolazione. Fino ad ora, né il Csm né l’Anm hanno assunto decisioni chiare sulla caratterizzazione “populista” che le Procure rischiano di avere: alcuni pm si fanno interpreti delle attese del popolo e in questo modo acquistano un potere che sfugge al controllo della stessa magistratura.
Quale è il suo giudizio in merito alla separazione delle carriere?
La separazione delle carriere è in primo luogo una misura di garanzia e di adeguatezza istituzionale: di garanzia in quanto la terzietà del giudice passa anche attraverso l’appartenenza di questi a un ordine diverso da quello della parte pubblica. Spesso si denuncia l'“appiattimento” del gip/ gup sulle richieste del pubblico ministero: è in gran parte vero. Ed è un esito di certo condizionato dalla contiguità che l’appartenenza ad un medesimo ordine favorisce. È una misura di adeguatezza istituzionale, anche, nel senso che si tratta di due mestieri diversi e di due ruoli istituzionali diversi. Si obietta che separando i Pm dall’ordine giudiziario si finisca con assoggettarli al potere esecutivo. È ovviamente un’obiezione incongruente: nulla vieta di creare un ordine distinto, con distinto organo di autogoverno.
Cosa ne pensa delle allusioni sul Csm fatte trapelare da De Magistris nella trasmissione di Giletti?
Il solito argomentare per illazioni: siccome nel collegio della disciplinare c’era il tale che però è anche citato nelle intercettazioni, allora vuol dire che la decisione disciplinare è viziata. Oppure peggio: siccome il tale da me indagato, e poi però assolto, è stato arrestato per altri fatti allora anche la mia indagine era fondata. Da un punto di vista giuridico nessuno si fa suggestionare da queste illazioni, tanto è vero che le sentenze di assoluzione a favore degli indagati di quell’ex pm non saranno di certo messe in discussione, ma l’illazione non è uno strumento retorico innocuo: condiziona i sistemi simbolici di cui fruisce l’opinione pubblica e mina la fiducia nei giudicati.
Il consigliere Csm Sebastiano Ardita, commentando la scarcerazione di Carminati, ha detto che i cittadini non capiranno e occorre una riforma per rendere più semplice il sistema penale. Non le sembra un discorso populista?
Le procedure italiane, ormai da qualche decennio, producono decisioni formalmente corrette, ma che per l’opinione pubblica risultano assurde e ciò a prescindere da come vengono divulgate. Da un punto di vista teorico, il tema è complesso: appartiene alla tradizione liberale l’idea che la garanzia stia nella forma e non nel contenuto della regola, ma il problema è l’idea distorta che si ha proprio della forma. Da un punto di vista della politica del diritto, è vero che ci sono settori della magistratura inclini a pensare che la giustizia coincida con l’accusa e che basti quest’ultima per fare dell’accusato un colpevole. In questa strategia v’è il sostegno di buona parte dell’informazione. Sicuramente è una forma di populismo giudiziario, ossia di quel modo ritenuto più semplice perché un magistrato possa assumere le vesti di interprete delle esigenze e degli interessi del popolo: quest’ultimo vuole giustizia dei corrotti e dei mafiosi? La semplice accusa soddisfa quel bisogno.