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«Davvero "separare le carriere di giudici e pubblici ministeri" è la condizione essenziale per la soluzione di tutti mali della giustizia italiana? Ne sembrano convinti alcuni schieramenti politici e soprattutto le Camere Penali ed è allora opportuno esaminare le ragioni che imporrebbero un simile sconvolgimento degli equilibri fissati in Costituzione». A dirlo è l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, in un intervento sul quotidiano La Stampa sulla riforma della giustizia. «L'argomento principale a sostegno della separazione rimane un semplice sospetto che non trova riscontro nei dati oggettivi - ha spiegato Pignatone -. Non viene invece preso adeguatamente in considerazione, a mio avviso, il serio rischio che la separazione delle carriere porti a rendere normale quella che oggi rimane un'eccezione e cioè un Pm superpoliziotto, inevitabilmente soggetto, molto più di quanto avvenga attualmente, alle pressioni dell'opinione pubblica, alle sue tendenze colpevoliste e alle sue richieste di un risultato immediato, specie dopo i fatti più gravi ed eclatanti». «Parallelamente, il giudice sarebbe più solo e, quindi, più debole. Ma il problema più grave posto dalla separazione delle carriere è la prospettiva della dipendenza del Pm dall'esecutivo. So benissimo che (quasi) nessuno dei fautori di quella tesi lo chiede e, anzi, in tutte le proposte finora formulate essa non è prevista - ha continuato il magistrato -. Tuttavia la forza delle cose non potrebbe che spingere in questa direzione, come del resto avviene in molti Paesi europei. Non sarebbe infatti accettabile, in un sistema democratico, l'esistenza di un organo che, anche grazie al controllo della polizia giudiziaria, sia così potente e contemporaneamente del tutto irresponsabile nel momento in cui venisse meno l'attuale inserimento nell'ambito più vasto della giurisdizione».