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Ripubblichiamo l’intervista a Corrado Carnevale, ex presidente della prima sezione penale della Corte suprema di Cassazione dal 1985 al 1993, apparsa nel numero di marzo della rivista della Camera penale di Roma “CentoUndici”, firmata da Valerio Spigarelli e Giuliano Dominici, dunque negli stessi giorni in cui ricorrono i 25 anni dall’avviso di garanzia che il giudice ricevette da Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia, il 23 aprile 1993.
“Quando venne introdotta la figura del 416 bis mi occupavo esclusivamente di civile, perché io diventai penalista per caso, dato che sono un penalista di complemento, così mi sono sempre qualificato, anche se mi sono laureato in Diritto penale e ho avuto il diritto alla pubblicazione della tesi, quindi, non ero digiuno. Allora, dissi, me ne vado nella più penalistica delle Sezioni Penali e andai nella Prima Penale”.
“Alla prima Penale si cominciava a parlare di 416 bis, o meglio c’era già il 416 bis che fu introdotto dopo l’omicidio di Costa, del Procuratore della Repubblica Costa. Naturalmente, dai processi che cominciarono ad essere esaminati con la mia presidenza c’erano anche processi di 416 bis e, quindi, cominciai a studiarmi la questione. Durante il fascismo non fu necessario inventare una nuova figura di reato per punire i mafiosi, con risultati che poi non si sono più avuti. Lo stesso risultato non si era avuto in seguito e mi sorpresi che si fosse creata questa nuova figura anche se capii subito che il nucleo era costituito dalla pressione che questi soggetti esercitano, avvalendosi della forza intimidatrice dell’associazione, cioè a dire il soggetto passivo del reato soggiace molto di più alle richieste del mafioso perché teme le reazioni dell’associazione che sono certo eccessive rispetto alle comuni reazioni dei delinquenti, alle richieste di pagamenti, alle estorsioni insomma, perché la caratteristica della mafia, almeno all’epoca, era quella di esercitare estorsioni senza atti violenti ma solo avvalendosi della forza intimidatrice dell’associazione".
Presidente, quando fu introdotta, la norma fotografava un fenomeno con una chiara una connotazione sociologica, oltre che criminologica: si può dire che le prime letture in Cassazione del 416 bis sono legate anche a questa identificazione sociocriminale?
Sì, sono strettamente legate perché non c’è dubbio che la cosa ha delle caratteristiche diverse da tutte le altre, o comunque peculiari rispetto alle altre associazioni, quindi, il Giudice, nell’applicare la norma, se la applica in modo corretto, sa benissimo quali sono gli elementi da valorizzare, da centrare. Poi con il tempo le cose sono cambiate e sono cambiate soprattutto quando si è introdotto da parte dei giudici di merito il concorso esterno. Concorso esterno che noi, per la verità, escludemmo in maniera as- soluta con tre o quattro sentenze della fine degli anni 80, tant’è che la Corte di Giustizia europea ha dovuto affermare che questa figura del reato si era consolidata soltanto con l’intervento delle Sezioni Unite, con la famosa sentenza del 1992 – mi pare che sia così - avallando quello che nel nostro sistema è inammissibile, e cioè che la giurisprudenza possa creare nuove figure di reato.
C’è qualcuno che dice, non soltanto in giurisprudenza ma anche parte della dottrina – Fiandaca uno per tutti –, che non è vero che il concorso esterno sia una stravagante invenzione della giurisprudenza: no, il concorso esterno nel reato associativo è da sempre riconosciuto nel sistema penale. La sua opinione su questo quale è? Io non riesco ad immaginare come uno che non fa parte di una associazione possa concorrervi; o è favoreggiamento oppure è concorso interno, perché io non credo che per poter essere responsabile di concorso in associazione mafiosa si debba per forza aver avuto il provvedimento di ammissione, il battesimo, la puncicata. Non credo che questo sia indispensabile, e infatti tutte le sentenze che sono state fatte nella seconda parte del 1980 erano su questa posizione, con la mia presidenza e anche senza la mia presidenza, dalla Prima Penale, perché all’epoca la Prima Penale aveva l’esclusiva, mentre successivamente fu fatto un certo spostamento.
Presidente, quello spostamento avvenne per caso? Come si arrivò a decidere che non doveva essere solo la Prima ad occuparsi di questi reati?
Perché si diceva che non era opportuno che le decisioni fossero prevedibili, questo era il punto. Secondo me, invece, la prevedibilità delle decisioni è un vantaggio, è una cosa alla quale bisognerebbe tendere, non fare di tutto per evitarla; questo diminuirebbe anche il contenzioso, perché se l’avvocato deve sostenere una tesi e sa che non trova spazio, almeno in quel momento, si avrebbe anche una diminuzione dei ricorsi e siamo sempre lì: la giustizia in Italia va male perché è amministrata male.
Su questo ci tornerei più in là, rimaniamo sulla storia del reato, del concorso esterno e di quel filone giurisprudenziale. Viene inserito questo reato, un reato specifico che non era stato introdotto neppure ai tempi del fascismo, siamo in piena guerra di mafia; quella giurisprudenza, la cosidetta giurisprudenza di Carnevale - che come lei dice non era di Carnevale, ma della Prima Sezione - al di là del merito afferma un principio: quello della libertà della giurisdizione. Anche di fronte alla emergenza c’è un magistrato, ci sono dei magistrati, che vogliono fare i giudici “normali” per qualsiasi tipo di fenomenologia criminale, per qualsiasi tipo di reato, ma rispetto a questa “pretesa” di giudicare in maniera ordinaria fenomeni che vengono ritenuti straordinari succede che la Prima Sezione viene aggredita.
Viene aggredita, e non episodicamente.
Come s’avvertiva la pressione politica, mediatica, giudiziaria, insomma l’aspettativa che un processo dovesse andare in una certa maniera piuttosto che in un altra?
Tutte le volte che ci occupavamo di ricorsi di quel tipo, l’indomani la stampa parlava dell’ammazzasentenze. Io lo sapevo benissimo, ma questo mi lasciava del tutto indifferente e quando seppi che c’era un magistrato di Palermo che aveva coniato il termine ammazzasentenze io risposi che noi non ammazzavamo nessuna sentenza, ma facevamo tutt’al più il lavoro dell’anatomopatologo, quello che fa l’analisi sul cadavere.
Tutto questo come veniva vissuto, non soltanto da lei personalmente ma dalla Corte?
Guardi la Corte, i componenti del collegio, non l’avvertivano neppure per indignarsi, perché la vulgata attribuiva tutte le decisioni a me, e neppure avvertivano che, in fondo, se da un canto attaccavano solo me, implicitamente consideravano loro delle marionette, e non uno solo, tutti e quattro, e non erano sempre gli stessi tra l’altro. Però a loro dava fastidio che si parlasse della Prima Penale. Io ricordo che quando ci fu la prima ondata di queste cose, in una udienza successiva con un collegio completamente diverso dal precedente, ci occupammo del ricorso contro l’ordine di cattura nei confronti di un famoso personaggio dell’epoca che era stato attinto da un ordine di cattura per omicidio, strage. Siccome era proprio una cosa pazzesca io dissi ‘ guardate, siccome dobbiamo decidere tutti dovete essere consapevoli tutti, quindi vi leggerò parola per parola la motivazione’. Alla fine della lettura il più anziano di cui ricordo il nome, ma non ve lo dico perché è morto, quindi non può più smentirmi, disse ‘ è acqua fresca’. Allora dissi: ‘ Annulliamo’. Sa come mi risposero? ‘ E che vogliamo andare un’altra volta a finire sui giornali? ’. Io, guardi, non ci vidi più: “A parte il fatto che sul giornale non ci siete finiti voi, perché voi non facevate parte di quel collegio e comunque neppure i componenti del collegio, Carnevale e basta, il giudice Carnevale, l’ammazza sentenze. Ma, dico noi ci dobbiamo preoccupare di quello che dice il mondo, di quello che dice il giornale? Ma no. Dico allora sentite una cosa, siccome io vi ho letto tutto, ognuno di voi ha ascoltato perché penso non sia stato distratto, votiamo e non ne parliamo più”. Finì 4 a 1. Dopodiché uscimmo, perché bisognava, i giornali ci attendevano, ed io dissi: ‘ Giustizia è fatta’, e capirono che ero stato messo in minoranza.
Era prevedibile che si sarebbe arrivati alla lettura attuale della norma?
No, non era prevedibile, se la prevedibilità fosse stata sorretta dalle regole di ermeneutica normativa, è successo perché adesso non si interpreta più la norma.
Nella lettura di queste norme la giurisdizione ha difeso la tassatività della norma penale, e assieme l’indipendenza della magistratura e la libertà della giurisdizione, secondo lei?
Almeno nel periodo in cui io fui magistrato questo accadeva, certamente ad opera di alcuni collegi, anche se in Cassazione questa idea non era condivisa da tutti. Le debbo dire, però, non per difendere me stesso ma per onorare i miei colleghi, che su quella giurisprudenza alla fine non ci fu nessun dissenso, quei colleghi che avevano rigettato il ricorso di cui ho parlato prima cambiarono opinione, tutti.
Oggi la parola mafia, proprio da un punto di vista lessicale, significa quello che significava 50 anni fa, 60 anni fa o invece, soprattutto nella percezione collettiva, abbraccia una serie talmente vasta di comportamenti che definisce fenomeni diversi, per legittimare le piccole mafie, le mafie delocalizzate? …
Ora, qualunque gruppo di persone commette reati che in quel momento storico meritano di essere particolarmente sanzionati, questo gruppo di persone diventa un’associazione mafiosa
In questo gioca un ruolo il fatto della specialità del processo per fatti di mafia?
Sì, soprattutto poiché ci sono degli strumenti istruttori e investigativi che sono tipici del processo di mafia. I Pm ed i Gip ritengono che qualificando un’associazione comune come un’associazione mafiosa possono avvalersi di quegli strumenti che agevolano molto il raggiungimento del risultato.
In questo tipo di processi le intercettazioni telefoniche o ambientali durano anni. Secondo Lei la magistratura italiana ha difeso l’articolo 15 della Costituzione o, nella prassi applicativa, invece lo ha sostanzialmente vanificato?
Credo che si sia avvalsa della massima - che io non approvo – che il fine giustifica i mezzi: siccome loro si prefiggono uno scopo, per raggiungere quello scopo per loro qualunque mezzo è consentito. Io personalmente sono stato sottoposto ad intercettazione per anni, di seguito.
Processo di mafia, processo di doppio binario, strumenti eccezionali di investigazione, grande potere alle Procure della Repubblica. La domanda è molto diretta: chi comanda oggi, all’interno di un processo, la Procura o il giudice? Chi è più forte?
Certamente la Procura, poi c’è anche il fatto che le Procure forniscono le notizie alla stampa.
Ecco, la stampa: quando faccio la domanda ‘ chi comanda’, lei risponde immediatamente ‘ le Procure, anche perché le Procure hanno dei rapporti con la stampa’. Questo è un tema delicatissimo per la democrazia di un Paese, non soltanto per il sistema giudiziario di un Paese. Si è discusso negli ultimi tempi del problema delle intercettazioni che finiscono sui giornali. Dal punto di vista degli avvocati, su questa questione, siamo entrati in una fase successiva rispetto a quei tempi. Noi vediamo che il rapporto che si è instaurato tra alcuni uffici investigativi e i canali di informazione, mentre prima serviva a fare ‘ pubblicità all’indagine’ ex post, oppure serviva – e quello che lei ci sta raccontando ce lo dimostra – a condizionare il giudice nel momento della decisione, oggi sottende qualcosa di diverso. L’impressione è che questi rapporti preparino il terreno all’accettabilità sociale delle future decisioni. Prima di arrivare al processo Mafia Capitale ci sono stati articoli su alcuni giornali che già raccontavano che cosa doveva essere questa nuova mafia, una sorta di lavoro preparatorio.
Sì sì, ma non c’è dubbio che la stampa favorisca e insomma dia pubblicità alle cose clamorose: le assoluzioni non danno soddisfazione, vuol dire che la giustizia ha fallito. Invece, le condanne specialmente se sono poi condanne severe - sono quelle che dimostrano ai giornalisti: avete visto come funziona bene? Anche se poi magari, nei gradi successivi la sentenza si capovolge. Io sono convinto che le fughe di notizie non provengano dai giudici, ai tempi del giudice istruttore forse era così... ma attualmente non è così, sono i pubblici ministeri che...
Presidente sono i pubblici ministeri o adesso, invece, il rapporto non si è direttamente instaurato tra le agenzie investigative e i giornalisti? Mentre prima arrivavano le notizie dalle Procure, adesso sembra quasi che arrivino nel corso delle indagini e finiscano sui giornali direttamente dalle polizie.
C’è il fatto che a tutti piace avere una buona stampa, essere considerato un grande poliziotto, un grande investigatore e via discorrendo. Ci sono alcuni che questo vizietto non ce l’hanno, ma la maggior parte ce l’ha e quindi... poi vedono che se certe notizie non vengono date dalla polizia, comunque poi le dà il Pm, allora lo facciamo noi e ci guadagniamo la notorietà di grandi investigatori.
La sua vicenda, quella giudiziaria, fu il primo laboratorio anche di questo: perché prima si costruì la figura del giudice ammazzasentenze, per cui era un fallimento se veniva annullato il processo che arrivava in Cassazione e finiva nelle mani di Carnevale, dipinto come uno che non capiva quanto fosse importante lottare la mafia. Oggi, paradossalmente, questo metodo che allora riguardava una figura apicale della magistratura, un uomo che comunque aveva un grande potere, sta diventando un clichè: prima l’articolo sul giornale che dice che anche a Roma c’è la Mafia, poi magari la fiction televisiva che fa la medesima cosa, quindi arriva l’ordine di custodia cautelare e poi il giudice – a Roma fortunatamente non è successo per adesso – si trova costretto a lottare con una sentenza che è già scritta nella testa dell’opinione pubblica. Quindi gli si chiede di essere doppiamente coraggioso.
Certo, si vuole che il giudice sia condizionato, e quindi è condizionato spesso. Io ho apprezzato molto i magistrati di quel processo, quella dottoressa del processo Mafia capitale, non so come si chiama...
La Presidente Ianniello
Che ha diretto in maniera perfetta e poi secondo me ha deciso correttamente; adesso vedremo che stabilirà l’appello, perché poi la Corte d’Appello certe volte è ondivaga.
Però anche nella sua vicenda giudiziaria alla fine hanno resistito alle pressioni: finisce con una decisione della Corte, no? Insomma, come dire, per Lei giustizia è stata fatta.
Lei però forse non ricorda che il Pg non solo chiese il rigetto del mio ricorso, ma addirittura disse che avrebbero dovuto contestarvi non solo il concorso esterno, ma l’associazione a delinquere di stampo mafioso.
No, no questo me lo ricordo, però lì il giudizio ‘ libero’ ci fu e la libertà della giurisdizione pure. Insomma, diciamocelo francamente, la sua vicenda era una vicenda di rilievo enorme, anche perché poi veniva associata ad un certo contesto politico, ma i suoi colleghi lì furono liberi, riuscirono a togliersi il peso.
Ma furono liberi perché il Collegio fu composto in quel modo, se ci fossero stati altri non sarebbero stati così.
Torniamo al concorso esterno: la giurisprudenza è fermamente attestata sulla sussistenza del concorso esterno nonostante i dubbi di molti commentatori. A questo punto non sarebbe meglio, qualcuno sostiene, costruire una fattispecie ad hoc?
Sì, innanzitutto perché le fattispecie di reato devono essere opera del legislatore, non del giudice. Il giudice deve interpretare e applicare, ma non creare. Quando c’è l’esigenza sociale di creare nuove figure di reato, c’è il legislatore.
Aspetti Presidente, Lei dice ‘ quando c’è l’esigenza sociale’, ma in un sistema costituzionale come il nostro introdurre un reato non dovrebbe dipendere da questo. Non è che introduco un reato perché c’è una aspettativa sociale: lo faccio perché c’è un’esigenza vera che però è condizionata dalla Costituzione. E questo vale anche per il livello sanzionatorio per certi reati. Oggi il livello sanzionatorio non dipende dalla gerarchia costituzionale dei beni ma è direttamente proporzionale alle pressioni che si fanno sul Parlamento rispetto a un certo tipo di vere o presunte emergenze. A volte, per alcuni reati, c’è una escalation sanzionatoria parossistica e magari si aumentano le pene non in base al disvalore dei comportamenti ma solo per poter utilizzare certi strumenti processuali. È proprio il caso dell’associazione mafiosa, che ha triplicato le pene nei minimi e nei massimi, nel giro di una decina di anni, per cui le pene all’epoca degli attentati del ’ 92 erano un terzo di quelle di oggi.
Ma questo conferma che lo Stato italiano è malato.
Qual è la malattia?
Quella di non avere dei principi chiari e di trattare la Costituzione come un optional. Io credo di averlo detto in un’intervista che poi fu pubblicata su Panorama in cui si parlava dell’associazione a delinquere e dei mafiosi. L’hanno fatta per poter utilizzare gli strumenti investigativi che altrimenti non avrebbero potuto, ed è così purtroppo. Ma questo è reso possibile dal fatto che i vari giudici non fanno il loro mestiere.
C’è un presidente di Corte di Cassazione che in questo momento si batte per l’introduzione dell’agente provocatore per i reati di corruzione: che ne pensa?
Appunto: che faccia un altro mestiere quel giudice.
In tutta questa trentennale storia di costruzione di norme che poi pian piano sfinano fino a diventare trasparenti dal punto di vista della tassatività, quale è stato il ruolo giocato dall’accademia?
Non parliamo dell’accademia perché io ho subìto anche da parte di certi accademici... Quando scarcerammo per decorrenza dei termini certi imputati, che poi furono riarrestati quando venne emanato un decreto legge correttivo, insomma, lei deve sapere che chi mi attaccò era Neppi Modona, che era magistrato e poi era diventato professore e faceva l’avvocato a Torino, ma non aveva aperto bocca quando la Corte d’Assise di appello di Torino, che stava giudicando i mafiosi catanesi a Torino, aveva applicato la norma sulla scarcerazione che poi applicammo noi nel gennaio successivo. Non aprì bocca quando lo fecero a Torino ma attaccò me. L’accademia, caro avvocato, ha le stesse pecche della magistratura, fa politica, e questo è grave. Chi si salva un poco è Fiandaca, che se lei legge il commento alla prima sentenza della Corte d’Assise di primo grado, la sentenza di Grasso, Maxi uno, in cui assolti ce ne furono parecchi, lui prende atto di una di queste cose e non si lamenta delle assoluzioni, come hanno fatto invece altri.
Il fatto di essere stato, e di essere considerato molto tosto con i suoi colleghi e anche di avere pubblicamente rivendicato competenza rispetto all’incompetenza, ha avuto un peso nella sua vicenda?
Non c’è dubbio su questo, non c’è dubbio! Perché quando io per esempio durante la relazione intervenivo e rettificavo o aggiungevo, il relatore sul momento non diceva niente, però... insomma, mentre gli avvocati mi ammiravano, quando io li correggevo i colleghi non la prendevano bene.
E c’ha ripensato?
Sì, ci ho ripensato, ma sono arrivato alla conclusione che se dovessi rinascere e avere la sfortuna di fare il magistrato, farei le stesse cose di quelle che ho fatto.
Ma lo rifarebbe il magistrato?
Forse no.