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«Non si può riscrivere la storia di un Paese guardando dal buco della serratura di un processo. Se questo dovesse capitare non è cercato né dovuto». È iniziato così, con una premessa irrituale, la relazione introduttiva del presidente della corte d'assise d'appello Angelo Pellino. Una premessa che ha chiarito come sarà l’evoluzione del processo: il giudice non avrà la pretesa di riscrivere la Storia, ma solo accertare o meno i fatti per i quali sono stati condanni gli imputati. Però se ciò dovesse accadere, non sarà un fatto voluto. Quindi, non lo esclude.
Parliamo del processo d’appello sulla presunta trattativa Stato – Mafia iniziato ieri con la presenza in aula dei sostituti pg Giuseppe Fici e Sergio Barbieri. Presenti in aula gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, accompagnati dai legali Basilio Milio e Francesco Romito. Non è presente il generale Antonio Subranni, ma è rappresentato dal legale Cesare Placanica. In aula anche i legali di Massimo Ciancimino, Roberto D’Agostino e Claudia D’Agostino. Presente il collegio difensivo di Marcello Dell’Utri rappresentato da Francesco Centonze. La Corte ha programmato fino al 22 luglio le udienze, per arrivare a svolgere i primi adempimenti, tra cui la decisione sull'eventuale riapertura del dibattimento.
In apertura dell’udienza, il legale di Massimo Ciancimino ha annunciato la rinuncia del suo assistito a presenziare in aula: è stato colpito da un ictus mentre era detenuto. «Nei giorni scorsi è caduto, ha perduto più volte l’orientamento ed ha avuto problemi gravi all’eloquio e ha una paresi parziale al lato sinistro», ha fatto sapere D'Agostino. Il Dap , al contrario, però aveva fatto sapere che Ciancimino è vigile. L'avvocato ha comunque presentato la cartella clinica in tribunale e anche «l'istanza affinché la Corte disponga una perizia per accertare se Massimo Ciancimino possa partecipare, coscientemente, alle udienze». Dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal legale di Totò Riina, morto nel novembre 2017 e quindi prima della sentenza di primo grado. L'avvocato intendeva chiedere un’assoluzione nel merito, invece dell’estinzione del reato per la morte del reo.
Le condanne di primo grado
Esattamente un anno fa il presidente della Corte di assise Alfredo Montalto leggeva il verdetto nell'aula bunker del carcere Pagliarelli: dodici anni di carcere per gli ex carabinieri del Ros Mario Mori e Antonio Subranni; stessa pena per l'ex senatore Marcello Dell'Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina; otto gli anni all'ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno; ventotto anni al boss Leoluca Bagarella; prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca. Massimo Ciancimino, invece, è stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell'ex capo della Polizia Gianni de Gennaro. L’unico politico condannato è Dell’Utri, mentre l'ex ministro Nicola Mancino è stato assolto per l’accusa di falsa testimonianza. Calogero Mannino, invece, aveva scelto il rito abbreviato e al primo grado è stato assolto, mentre attende a breve anche il verdetto dell’appello. Da ricordare che, secondo la tesi giudiziaria, sarebbe stato proprio Mannino a dare il via alla presunta trattativa.
In che cosa consiste la tesi sulla presunta Trattativa, accolta sostanzialmente dal giudice di primo grado? La presunta trattativa sarebbe nata in un contesto ben preciso. Dopo la conferma in Cassazione del gennaio 1992 delle pesanti condanne inflitte dai giudici del maxiprocesso, Cosa nostra avrebbe reagito realizzando un programma stragista avente come fine ultimo la ricostruzione di un rapporto di pacifica convivenza tra il mondo mafioso e quello politico: le stragi costituivano uno strumento necessario per piegare psicologicamente il ceto politico di governo e ottenere dei favori. Il piano stragista sarebbe iniziato con l’omicidio del parlamentare Salvo Lima nel marzo del 1992 e prevedeva anche l’uccisione di Giulio Andreotti, Claudio Martelli, Calogero Mannino e altri. Così sarebbe nata l’iniziativa dei Ros - sollecitata, secondo i pm, da Calogero Mannino - di contattare l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino come possibile tramite di comunicazione con il vertice mafioso corleonese. Questa presa di contatto, rivelata fin dal 1993 dagli stessi ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno ( ma per altri motivi, ovvero per arrivare all’arresto dei latitanti), avrebbe avuto la finalità di tentare qualche strada per far desistere la mafia dal portare a termine le azioni criminali programmate: è in questo momento che Ciancimino avrebbe consegnato il famoso papello contenente richieste specifiche per trattare con lo Stato. È l’unica prova scritta, però la stessa sentenza prende atto che è un falso, una vera e propria patacca, ma aggiungendo che non si può escludere che il vero papello esista. Quindi per la corte di primo grado il papello, anche se non se ne trova traccia, esiste ed è la prova incontrovertibile della trattativa visto che l’allora Ministro Conso avrebbe agito in conformità delle direttive. Quali? Il mancato rinnovo del 41 bis ai 334 detenuti. Ma egli, come ha anche ricordato Luciano Violante – all’epoca dei fatti presidente della commissione antimafia – ha sempre detto che la sua scelta era basata su una sentenza della Consulta, la numero 1349 del 28 Luglio del 1993. Ritornando alla tesi principale della trattativa, il test chiave era rappresentato da Massimo Ciancimino, il figlio di “Don Vito”, ed è colui che non solo ha prodotto il papello – poi considerato un falso – ma è colui che ha raccontato, da testimone, i colloqui dei contatti tra gli ex Ros e il padre. Eppure era stato definito dai giudici che assolsero Mori nel precedente processo “clone” sulla trattativa, una persona inattendibile. Nel processo sulla trattativa è stato, infatti, condannato per calunnia.