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«Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni», diceva Fedor Dostoevskij. Ed il viaggio della Corte costituzionale all’interno degli istituti penitenziari dello Stivale è stato proprio questo, un modo per misurare il grado di civilizzazione del nostro Paese, ma anche per riannodare i fili che tengono legati tra di loro due mondi apparentemente separati: quello dentro e quello fuori le mura.
E quel viaggio si è trasformato in un film, diretto dal regista Fabio Cavalli, e presentato lo scorso 5 settembre alla Biennale di Venezia, come evento speciale della 76esima Mostra internazionale d'Arte cinematografica. “Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri”, prodotto da Rai Cinema e Clipper media, è il racconto degli incontri fra sette giudici della Consulta e i detenuti di sette istituti penitenziari italiani: Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, il carcere minorile di Nisida, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni e la sezione femminile di Lecce.
Una cosa «mai successa prima», ha evidenziato Cavalli. Che ha ricordato il senso profondo dell’articolo 27 della Costituzione: «il carcere serve per dare una seconda chance a chi ha sbagliato. Quindi di fatto nessuno sbaglia definitivamente e tutti possono essere recuperati. Questo - ha concluso - è il senso di questa operazione».
Si tratta, dunque, di un documento importante, unico nel proprio genere, ha evidenziato il presidente della Biennale, Paolo Baratta, «perché parlare della Costituzione a chi ha subito le conseguenze delle legge vuol dire spiegargli che ha perso la libertà ma non la dignità di cittadino». Un documento che rientra in quella categoria di film «che si rivolgono alla formazione di una nazione e di un popolo». Un popolo costretto a riabituarsi ad un’idea andata persa, ma che rappresenta uno dei pilastri sui quali si basa la nostra Costituzione: la funzione rieducativa della pena.
Il viaggio, dunque, serve soprattutto per riumanizzare il carcere, ma anche chi lo osserva dall’esterno, rimettendo in contatto il mondo dell’illegalità e quello della società cosiddetta civile, in un periodo storico in cui il giustizialismo ha sostituito la giustizia, cercata pubblicamente, come gogna e punizione esemplare. La Corte Costituzionale, però, ha tentato di rimettere in ordine le cose, ricordando ai non addetti ai lavori il significato della punizione in uno Stato democratico.
«Andare verso una porzione della popolazione dell’Italia che vive dietro le mura ha voluto significare proprio una testimonianza - ha sottolineato Marta Cartabia, vicepresidente della Consulta che quella è una parte del popolo italiano, che vanno ricostituiti i legami e che da lì può rinascere una comunità anche tra soggetti apparentemente così distanti». Da quelle immagini emerge il desiderio, spesso ignorato, «di rinascita personale. Nessuno di noi ha la bacchetta magica che può trasformare un luogo di detenzione in un luogo di civiltà - ha aggiunto - ma ci auguriamo di aver iniziato a gettare un seme».
Una testimonianza portata anche dagli stessi giudici della Corte, come Francesco Viganò. «Il film è la storia di un incontro tra due realtà molto distanti che magari non si conoscono molto e per questo sono particolarmente felice di essere qui, per far conoscere la Corte costituzionale e per far conoscere la realtà del carcere, una realtà un po’ oscura e dimenticata», ha spiegato. Un atto di realismo, ha aggiunto il collega Luca Antonini. Il carcere è parte della realtà, «una realtà che non bisogna dimenticare. Il cinema può essere finzione, però deve esserci sempre un aggancio con la realtà. E ha anche il compito di generare una cultura».