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Sul Fatto quotidiano di ieri l’ex giudice di Cassazione Antonio Esposito ha notato che mai come nell’imminente tornata elettorale si erano visti così pochi magistrati nelle liste. «I politici preferiscono i pregiudicati ai giudici», ha scritto la toga che condannò Berlusconi. Sarà. Ma sarebbe azzardato negare come anche nella magistratura cominci a porsi quella che gli amanti del genere definirebbero “una questione morale”. Solo per citare i due casi più recenti, cioè registrati nelle ultime ore, abbiamo nell’ordine un’ex presidente della sezione Misure di prevenzione a Palermo, Silvana Saguto, per la quale il pg di Cassazione ha chiesto la rimozione dall’ordine giudiziario, causa “condotte quotidiane di immensa gravità”; e un pm, Giancarlo Longo, che secondo la ricostruzione del gip di Messina sarebbe stato protagonista di “plurime condotte di mercificazione della funzione giudiziaria”, grazie a una “inquietante capacità criminale”. Attorno ai due exploit dell’ultim’ora orbitano satelliti che non impegnano la credibilità personale dei magistrati coinvolti ma pure lasciano sconcertati, come il dramma del procuratore di Brescia, il cui figlio tossicodipendente faceva rapine armato di mitraglietta. Il tutto mentre è ancora opprimente il peso della vicenda Bellomo, il consigliere di Stato destituito dalla funzione per le accuse mosse dalle frequentatrici di un suo corso, secondo le quali avrebbe imposto condizioni al limite della sevizia sessuale.
Che all’interno della magistratura si sia preoccupati per l’incredibile sequenza di storiacce, è comprensibile. Da anni le statistiche riferiscono di un inarrestabile calo della fiducia nei confronti delle toghe, e negli ultimi tempi gli indicatori paiono ancora più in picchiata. L’ultima legislatura è stata scandita dal tema dello strapotere correntizio: per evitare che tra i magistrati si rafforzasse una sorta di partitocrazia in sedicesimi, il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva ipotizzato una riforma elettorale del Csm. Non se n’è fatto nulla, anche per le forti ritrosie dei togati di fronte alle soluzioni più drastiche. Di recente si è aggiunto il caso di una norma misteriosamente inserita nella Manovra che ha cancellato l’anno di “naftalina” previsto per i consiglieri superiori uscenti: i sedici che stanno per terminare il loro quadriennio potranno assumere un incarico direttivo o fuori ruolo un minuto dopo aver lasciato Palazzo dei Marescialli.
Come si spiegano tanti scricchiolii? Alcuni sintomi come il successo associativo di Piercamillo Davigo, caso singolare di “moralismo populista” interno alla magistratura, fanno pensare a una sorta di mutazione antropologica: un numero sempre maggiore di aspiranti giudici sembra ambire alla toga più per l’ottima retribuzione che per lo slancio ideale. In sé, il dato non sarebbe scandaloso. Ma è probabile che la tensione civile un po’ rarefatta spinga le correnti a cristallizzarsi in sistema corporativo più che a valorizzare la vocazione di presìdi culturali. La cosiddetta deriva potrebbe avere d’altra parte una matrice mediatica prima che reale: vicende, isolate, di giudici corrotti ce ne sono state anche in passato. Potrebbe esserne cambiata la percezione: ci si era abituati a considerare la magistratura come l’estremo avamposto della morale e della legalità. A considerare i pm come unici salvatori della patria. Ecco: casi come quelli di Saguto o di Longo riportano tutti con i piedi per terra. Magari possono aiutare a far cadere un mito inutile, quello dei Savonarola in toga pronti a sostituire la politica indegna. Sarebbe un ritorno alla normalità perduta con Mani pulite. Se riumanizzare i magistrati servisse a riportare un po’ di equilibrio nel rapporto tra politica e giustizia, male non sarebbe. Con buona pace del giudice Esposito, vorrà dire forse che continueremo ad avere pochi pm in Parlamento. Il che sarebbe un altro segno di ritorno alla normalità.