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Continue «pressioni mediatiche e politiche». Un’estensione dell’aggravante mafiosa «tecnicamente impossibile». E un utilizzo del 41 bis «folle» per l’ex Nar Massimo Carminati. L’ipotesi mafia, quella del “Mondo di Mezzo”, per il presidente della Camera penale di Roma, Cesare Placanica, è stata «una forzatura giuridica». Un pericolo scampato, racconta al Dubbio il penalista, ma che rappresenta il frutto del populismo di cui si nutre la politica.
La sentenza del processo “Mafia Capitale” ci dice che l’applicazione dell’aggravante mafiosa ai fenomeni di corruzione è errata. Che peso ha questa decisione?
È un passaggio molto importante, perché, nell’ottica di un’esigenza sociale, si è cercato di estendere mediante l’interpretazione la riconducibilità di alcuni comportamenti che non si ritenevano sufficientemente coperti da norme del codice penale ad altre norme esistenti. Ed è un meccanismo che va rigettato con serietà: il primo pericolo nell’esercizio della giurisdizione è l’arbitrio. Che non vuol dire malafede, ma essendo l’applicazione della giurisdizione penale un fatto violento, quindi di estrema ratio, va dosato con grandissima serietà e accortezza. Tant’è vero che su questi aspetti, più volte ultimamente, siamo stati bacchettati dalla Cedu, come nel caso Contrada.
Il tentativo di equiparare la corruzione alla mafia è però poi riuscito in qualche modo con la Spazzacorrotti… Purtroppo questo è il frutto del populismo. Ad esempio, sulla prescrizione, che tutti d’istinto odiano, come Unione delle Camere penali abbiamo fatto uno sforzo per liberare l’opinione pubblica dai racconti favolistici, con uno studio che dimostra che, in questo momento, ha tempi lunghissimi. Si tiene una persona a processo anche per 18 anni senza sapere se è colpevole o innocente. Ma il populismo ha interesse a confondere le acque, a non dare il dato effettivo. E ingenerando paura, creando una rappresentazione artefatta del dato, poi veicola verso di sé un consenso drogato, perché indotto in errore. Cose come le manette agli evasori rappresentano leggi manifesto, ma non risolvono veramente il problema. Come la Spazzacorrotti. Il processo è una cosa molto delicata, dove il protagonista è l’imputato e si deve accertare se ha commesso un reato e se corrisponde ad una norma incriminatrice. Tutto il resto è un elemento di disturbo. La giustizia si fa mediante la polizia giudiziaria, fino al momento in cui comincia il processo. Poi escono tutti di scena ed entrano le parti processuali.
Ma ciò non accade. Quali sono le conseguenze?
Questo rende necessaria la figura del giudice coraggioso, perché deve contrastare l’aspettativa popolare, creata al di fuori delle aule, e avere anche il coraggio di esporsi alla critica. Ma non è previsto che i giudici siano coraggiosi. Devono esserlo negli Stati autoritari, in quelli democratici devono sentirsi liberi. Ecco perché ogni forma di pressione sul processo diventa una forma di pressione sul giudice e un mezzo per inquinare l’effettività della giurisdizione.
Crede sia successo anche in questo processo?
Il problema è questo: io faccio un’indagine e su questa si avventano i soggetti esterni che la strumentalizzano rispetto al proprio tornaconto, alterando la normale dialettica processuale. Certamente su Mafia Capitale c’è stata un’attenzione tale da creare aspettative di un certo tipo e, quindi, delusione per la sentenza. Ma io penso che bisogna essere contenti a sapere che in realtà non era mafia.
Perché tecnicamente non può esserlo?
Mancavano alcuni elementi fondamentali della fattispecie mafiosa. È vero che la giurisprudenza consente le nuove mafie, ma queste non hanno un potere di coartazione del territorio tipico della mafia storica. Per acquisire questo timore reverenziale, per cui un mafioso ottiene senza chiedere, si deve sapere, in quel contesto, che è un mafioso, che è pericoloso e che è in grado di esprimere, se non assecondato, una carica di violenza. E questo o è radicato in un certo territorio in maniera storica o si sa perché è stata espressa questa carica di violenza. In questo processo l’ultimo tassello mancava completamente.
Nemmeno la presenza di Carminati bastava?
La sua fama è nata nel corso del processo con alcuni articoli di stampa. Tant’è vero che nelle intercettazioni i soggetti coinvolti dicono: “ma tu hai capito chi era quello?” Insomma, lo hanno saputo da un giornale. Quella di Carminati non è una storia di controllo mafioso del territorio e i suoi precedenti non bastano per contestare l’aggravante mafiosa, altrimenti potrebbe accadere a chiunque ne abbia.
Come si qualificano allora le nuove mafie? Va cambiato il 416 bis?
In questo momento i reati dei pubblici ufficiali sono puniti con pene severissime. Senza contestare la mafia non si rimane impuniti. E la norma così va più che bene, perché l’associazione a delinquere semplice consente già pene alte. La mafia è un’aggravante specifica quando un determinato territorio dello Stato non è libero e non è possibile estenderla, in modo forzato, ad altri tipi di comportamenti già specificamente sanzionati.
Mandare al 41 bis Carminati è stato dunque un abuso?
Il 41 bis è un trattamento inumano, tout court. Ferma restando la finalità di isolare il soggetto dal contesto mafioso, che può essere condivisibile, non si può tradire il rispetto della dignità umana. Nel caso di Carminati ritengo sia stato una follia giuridica. Se la ratio è evitare contatti con l’associazione di provenienza, quella di Carminati, per ammissione del procuratore di Roma e del Prefetto che non ha sciolto l’amministrazione, era già stata debellata. Allora quali contatti andavano recisi?